mercoledì 25 giugno 2014

Malattie autoimmuni: un'epidemia da combattere fin dal concepimento

Negli ultimi settant'anni gli epidemiologi hanno registrato un aumento repentino e progressivo deill'incidenza di alcune malattie non trasmissibili: asma, eczema e malattie allergiche, diabete di tipo 1, sclerosi multipla, malattie infiammatorie croniche dell'intestino, disturbi neurologici a insorgenza infantile. Che cos'hanno in comune queste patologie apparentemente tanto diverse tra loro?
"Sono tutte malattie autoimmuni, cioè dovute a un malfunzionamento del sistema immunitario che attacca per errore i tessuti del proprio organismo", spiega Hans Bisgaard, pediatra dell'Universitá di Copenaghen che ha organizzato un seminario sull'argomento nell'ambito dell"Euroscience Open Forum 2014, in corso a Copenaghen. "La situazione è preoccupante: le malattie autoimmuni, un tempo rare, oggi sono sempre più comuni e sempre più si sta abbassando l'età del loro esordio. Ci chiediamo quali fattori sono responsabili del fenomeno e come possiamo intervenire per arginare questa tendenza?"

Programmazione prenatale

Numerose evidenze legano l'insorgenza delle malattie autoimmuni allo sviluppo prenatale e ai primi mesi di vita del bambino. "Sono patologie multifattoriali, che dipendono dall'interazione tra fattori genetici e fattori ambientali", osserva Harald Renz, microbiologo dell'Università di Marburgo, intervenuto al seminario. "I fattori ambientali che influiscono maggiormente sono quelli che agiscono durante la maturazione del sistema immunitario dell'individuo: durante la sua gestazione. Nei nove mesi di gravidanza, le cellule del sistema immunitario materno entrano in contatto con quelle fetali. I due sistemi dialogano. In questa fase avviene quella che gli specialisti chiamano programmazione fetale epigenetica: l'ambiente uterino modula l'espressione dei geni del nascituro attivandone alcuni e silenziandone altri durante il suo sviluppo, rinforzando una predisposizione genetica o al contrario attenuandola. I fattori che influiscono in questo processo sono l'età della madre e le sue condizioni di salute al concepimento, la sua alimentazione, la presenza nel suo organismo di tossine derivate dal fumo di tabacco, dalll'alcool o dall'inquinamento ambientale, lo stress, che determina la produzione di molecole infiammatorie in grado di superare la barriera della placenta, la composizione della flora batterica materna. Non a caso uno dei fattori di rischio noti per l'insorgenza di malattie allergiche è la nascita mediante cesareo. Con questa modalità di parto, il bambino non entra in contatto con la flora batterica vaginale materna e non ne viene colonizzato, col risultato che la sua flora batterica intestinale anche a distanza di mesi è più povera rispetto a quella dei bimbi nati con parto vaginale. E la flora batterica ha un ruolo determinante nel modulare la tolleranza del sistema immunitario".

Combattere l'infiammazione

Particolarmente importanti sono lo stato di salute e l'alimentazione materna prima del concepimento e in gravidanza. "È in aumento nei Paesi industrializzati la percentuale di donne che intraprendono la gravidanza in forte sovrappeso o in condizioni di franca obesitá", dice Susan Prescott, pediatra della University of Western Australia. "Sicuramente questa tendenza è uno dei fattori responsabili dell'aumento deill'incidenza di malattie autoimmuni tra i bambini e i giovani. L'obesità induce nell'organismo materno uno stato di infiammazione cronica che influisce negativamente sullo sviluppo del nascituro e ne condiziona la salute futura. L'infiammazione ha un ruolo fondamentale nel funzionamento del sistema immunitario. È il meccanismo che media l'attività delle cellule immunitarie responsabili delle malattie autoimmuni".
Che cosa può fare dunque la futura mamma per offrire al nascituro un ambiente ottimale per lo sviluppo e proteggerlo dalle malattie autoimmuni?
"Affrontare la gravidanza possibilmente in condizioni ottimali di peso", risponde Susan Prescott. "Contenere l'apporto di grassi, zuccheri e sale nell'alimentazione, consumare molte fibre per mantenere la flora batterica ricca e varia, condurre una vita attiva, possibilmente all'aria aperta, per ossigenare i tessuti e stimolare la circolazione sanguigna, non fumare, non bere alcolici, se possibile evitare gli ambienti fortemente inquinati e, infine, evitare le fonti di stress, perché lo stress materno è nocivo per il nascituro fin dal concepimento. Le stesse raccomandazioni sono valide in seguito per l'alimentazione e lo stile di vita del bambino".






martedì 17 giugno 2014

La percezione dell'eterologa

Poche righe per integrare gli ultimi post sull'eterologa.
Ecco i risultati di un sondaggio condotto su 100 coppie che si sono rivolte al centro per la fertilità Genesis di Roma per avviare un percorso di PMA. Riguarda  conoscenza e opinioni sull'eterologa da parte di persone potenzialmente interessate. Il 92% delle donne e l'87% degli uomini intervistati sapeva di che cosa si trattava. Riguardo l'anonimato dei donatori di gameti, il 62% delle donne e il 75% degli uomini era a favore. Per quanto riguarda invece l'opportunità di retribuire i donatori di gameti, il 38% degli uomini e il 58% delle donne rispondeva "non lo so". Contrario il 37% degli uomini e il 17% delle donne.

lunedì 16 giugno 2014

Ho donato i miei ovociti: la storia di Alessandra (Terza Parte)

Ernest F attraverso Wikimedia Commons
Nella prima e seconda parte di questa storia, Alessandra, italiana residente in Spagna, ha raccontato in quali circostanze e per quali ragioni ha preso la decisione di donare i propri ovociti per interventi di fecondazione eterologa, a quali esami è stata sottoposta e come si è svolta la procedura.
"L'idea che dalle cellule che ho donato possano essere nati dei bambini mi piace, mi fa sentire bene", dice la donatrice. "Soprattutto sono soddisfatta al pensiero di avere aiutato altre donne a coronare il proprio desiderio di maternità, ma se penso a quei bambini non li sento come figli miei. Un bambino è figlio di chi lo partorisce e, ancor più, di chi lo cresce. Non è una questione biologica, ma di amore. Ecco perché dico che non sono figli miei e quando un giorno avrò dei bambini non nutrirò alcun rimpianto per quelli eventualmente nati dai miei ovociti, non farò alcuna confusione di affetti".

Eugene Ermolovich attraverso Wikimedia Commons
L'anonimato

Alessandra non sa se le gravidanze avviate con i gameti che ha donato siano andate a buon fine né lo saprà mai. La legge spagnola prevede l'anonimato dei donatori di ovociti e spermatozoi. Tra loro, le coppie riceventi e, in seguito, i bambini nati non c'è comunicazione né alcun rapporto parentale o giuridico.
"È una misura a tutela di tutte le parti coinvolte: della donatrice, della coppia che riceve la donazione, dei nati, ma anche di eventuali altri figli della coppia e di eventuali figli della donatrice", commenta Laura Volpini, presidente dell'Associazione Italiana Donazione Altruistica e Gratuita dei Gameti.
In gran parte dei Paesi europei la normativa è orientata in tal senso. "Ma non in tutti", aggiunge l'avvocato Sebastiano Papandrea, legale dell'Associazione. "Per esempio, in Gran Bretagna una volta vigeva l'obbligo dell'anonimato assoluto. Di recente questo paletto è stato rimosso. In Italia la norma di riferimento è la legge 40 che, nonostante vietasse l'eterologa, regolamenta il caso in cui una coppia faccia ricorso a questo tipo di intervento all'estero. Prevede l'anonimato del donatore o della donatrice e stabilisce che tra il donatore e il nato non sussiste alcun legame. Inoltre, nel nostro Paese fa testo sulla questione anche la legge sulla donazione degli organi e dei tessuti, che prevede l'anonimato di chi dona. Non è detto, però, che anche in Italia non si possano in futuro rivedere le regole. Già nel caso delle adozioni è possibile, in determinate circostanze, che un giudice consenta a un figlio di acquisire informazioni sulla madre biologica o a una madre di acquisire informazioni sul figlio. È concepibile, in futuro, un ripensamento in tal senso anche per l'eterologa, con valutazioni fatte dai giudici caso per caso. Quel che è certo è che la coppia che ha fatto consapevolmente ricorso all'eterologa non può in seguito disconoscere la paternità o la maternità sulla base dell'assenza del vincolo biologico. Il nato è protetto. La famiglia entro cui nasce è legalmente la sua famiglia".

Ilya Haykinson attraverso Wikimedia Commons
La "tracciabilità" dei gameti

Anonimato del donatore non significa assenza totale di informazioni sul suo conto. La clinica che ha effettuato il trattamento di fecondazione assistita eterologa mantiene nei propri archivi tutti i dati relativi alla storia medica e agli esami effettuati da chi ha donato ovociti o spermatozoi. "Sono informazioni necessarie per la tutela della salute futura dei nati", dice in ginecologo Andrea Borini, presidente della Società Italiana Fertilità, Sterilità e Medicina della Riproduzione, "e sono a disposizione dei diretti interessati e delle famiglie. Esiste, quindi, una sorta di tracciabilità dei gameti".
I donatori vengono esaminati per escludere le patologie genetiche più comuni, come la fibrosi cistica e l'anemia mediterranea, e le alterazioni cromosomiche ereditarie. "Attenzione, però: ciò non signfica che i bambini nati da fecondazione eterologa siano del tutto esenti dal rischio di malattie ereditarie", spiega Borini. "Allo stato attuale la scienza non è in grado di escludere al 100% il rischio di ereditare una malattia o la predisposizione a una malattia. Il rischio esiste sempre quando si fa un figlio spontaneamente, con fecondazione assistita omologa o eterologa. Non ha alcun senso, dunque, aspettarsi la perfezione, come se la clinica potesse fornire una garanzia di salute".
Similmente, la coppia che fa ricorso all'eterologa non può chiedere alla clinica ovociti o spermatozoi portatori di specifiche caratteristiche, allo scopo di avere un figlio bellissimo o super intelligente. "Non funziona così. Questa è fantascienza", osserva il ginecologo. "Gli operatori scelgono il donatore o la donatrice in modo tale che il figlio abbia a grandi linee caratteristiche fisiche analoghe a quelle dei genitori, come il colore della pelle e dei capelli, ma non si può cercare il donatore che abbia il profilo del naso come quello del futuro padre. I tratti di una persona dipendono da una moltitudine di fattori, genetici e ambientali, e siamo i grado di orientarli solo in minima parte. E il figlio nato da una coppia o anche solamente allevato da una coppia, come accade nelle adozioni, tende a somigliare ai genitori anche se non ne condivide del tutto o per nulla il DNA".

venerdì 13 giugno 2014

Ho donato i miei ovociti: la storia di Alessandra (Seconda Parte)

Doreen Dotto via Wikimedia Commons
Nella prima parte di questa storia Alessandra, italiana residente in Spagna, ha spiegato le motivazioni che l'hanno spinta a donare i suoi ovociti a una clinica della fertilità per la fecondazione eterologa di aspiranti mamme affette da sterilità. "Dal momento in cui ho fatto la mia scelta e mi sono rivolta alla clinica, sono stata sottoposta a una serie di controlli, per escludere qualunque ostacolo alla donazione", racconta.

Gli esami

"Ho parlato con un dottore che ha ricostruito la mia storia medica e quella della mia famiglia", spiega. "Si è informato su eventuali precedenti di malattie ereditarie. Ha avuto qualche perplessità quando ha saputo che la mia famiglia è di origine sarda e dunque ho un maggior rischio di essere portatrice di anemia mediterranea, ma i successivi esami hanno escluso questa eventualità".
Le aspiranti donatrici di ovociti vengono sottoposte ad analisi del sangue per le più comuni malattie genetiche. "Di solito si esegue il test per la fibrosi cistica e in alcuni casi, se provengono da aree a rischio, quello per l'anemia mediterranea", spiega il ginecologo Andrea Borini, presidente della Società Italiana Fertilità, Sterilità e Medicina della Riproduzione. "È previsto anche un esame del cariotipo per escludere alterazioni cromosomiche che potrebbero aumentare il rischio di aborto spontaneo. Altri esami del sangue prescritti di routine sono quelli per le malattie infettive: HIV, epatite B e C e sifilide. Infine è previsto un tampone cervicale per escludere la clamidia".
Terminata la trafila dei test, Alessandra è stata sottoposta a visita ginecologica ed ecografia pelvica. Infine, a un colloquio con una psicologa. "Tra le altre cose, mi ha chiesto che cosa provavo all'idea che dai miei ovociti donati potessero nascere dei bambini che sarebbero stati a tutti gli effetti figli di altre donne", racconta la ragazza.
"Il colloquio ha la funzione di tutelare il benessere psicologico della donatrice", spiega la psicologa Laura Volpini, presidente della neonata Associazione Italiana Donazione Altruistica e Gratuita dei Gameti. "Serve ad accertare che la donazione sia un gesto pienamente consapevole e volontario, che la donna sia serena nella sua scelta. Di solito, se la decisione è stata ben ponderata, la donatrice prova soddisfazione per il gesto altruistico. Possono subentrare dei rimorsi in alcuni casi particolari. Per esempio, se la donatrice si sottopone a sua volta a PMA e il trattamento non ha successo, potrebbe provare del risentimento pensando che gli ovociti donati ad altre donne sono invece andati a buon fine".

Canwest News Service attraverso Wikimedia Commons
La procedura

"Tre o quattro giorni dopo l'ultima visita, i medici della clinica hanno chiamato per comunicarmi che andava tutto bene e potevamo procedere", racconta Alessandra. "Ho firmato un consenso informato molto dettagliato e ho dato la mia disponibilità ad assumere i farmaci prescritti ogni giorno agli orari previsti e a sottopormi a visite ed ecografie a giorni alterni per un mese, fino al prelievo degli ovociti".
Inizialmente ad Alessandra è stato prescritto un contraccettivo per alcuni giorni. "Non sempre è previsto", spiega Andrea Borini. "È necessario nei casi in cui bisogna sincronizzare il ciclo della donatrice con quello della ricevente, in modo tale che gli ovociti siano maturi e pronti al prelievo nel momento giusto per fecondarli e procedere con l'impianto dell'embrione".
In seguito le sono state prescritte delle gonadotropine per stimolare la maturazione contemporanea di più follicoli. "Erano delle iniezioni sottocutanee che dovevo farmi da sola sulla pancia", racconta Alessandra. "Due al giorno: una pizzicava un po'. Gli orari delle iniezioni andavano rispettati rigorosamente e se ritardavo per qualche ragione dovevo chiamare un numero di telefono della clinica e chiedere istruzioni".
Nel corso del trattamento non ha provato alcun fastidio, ma ha notato alcuni cambiamenti fisici. "Mi è cresciuto il seno e avevo l'addome un po' gonfio", spiega, "ma alla fine di tutto sono tornata alle condizioni di partenza".
Al termine del mese, la donatrice è andata alla clinica per il prelievo degli ovociti maturi. "Mi hanno sedata e mi sono addormentata. Non ho sentito niente", racconta. "Sono tornata a casa la sera stessa, ma nei giorni successivi sono andata ancora alal clinica per una visita di controllo con ecografia. Avevo un piccolo versamento di sangue nell'ovaio e nei due giorni successivi al prelievo ho avuto dolori addominali piuttosto forti. La dottoressa mi ha rassicurato: il versamento si sarebbe riassorbito da solo. In effetti in seguito sono stata bene e non più avuto problemi".
Il prelievo degli ovociti è un intervento mini invasivo. Si effettua con un sottile ago che raggiunge l'ovaio per via vaginale. Normalmente non ha alcuna conseguenza negativa per la salute della donatrice. "Alcune donne possono provare dolore all'addome nelle ore successive, più o meno accentuato, ma è un disturbo superabile con un analgesico e si risolve poi spontaneamente", spiega Borini. "Sono previsti dei controlli per verificare che le ovaie siano tornate alla loro attività fisiologica".

Non perderti la terza e ultima parte della storia di Alessandra, con l'intervista a un avvocato sugli aspetti legali della tutela dell'anonimato della donatrice, conservandone però i dati medici, e sulla posizione giuridica dei bimbi nati da fecondazione eterologa.


giovedì 12 giugno 2014

Ho donato i miei ovociti: la storia di Alessandra (Prima Parte)

Nina Matthews attraverso Wikimedia Commons

 Alessandra ha 26 anni e ama i bambini. Studia per diventare educatrice dell'infanzia. È italiana, ma per alcuni anni ha vissuto in Spagna per lavoro. Lì, a Bilbao, ha fatto una scelta che nel nostro Paese oggi è legale ma, di fatto, non è ancora accessibile: ha donato alcuni suoi ovociti per consentire a donne sterili di coronare il proprio desiderio di maternità.
In Italia la recente sentenza della Corte Costituzionale ha sancito la legalità della fecondazione eterologa, tuttavia l'assenza di linee guida nazionali specifiche ha di fatto impedito finora la donazione di gameti e l'utilizzo di gameti donati. Non è così in Spagna, dove l'ovodonazione è consentita e incoraggiata.
La normativa europea prevede che non si possa fare commercio degli ovociti o degli spermatozoi. La donazione deve essere gratuita, tuttavia in alcuni Paesi è previsto un rimborso spese per le donne che si sottopongono alla procedura invasiva, sacrificando anche giorni di lavoro. "In Spagna questo rimborso è cospicuo, tanto da rasentare l'entità di un vero e proprio compenso, una pratica oggetto di critiche a livello europeo", spiega la psicologa Laura Volpini, presidente della neonata Associazione Italiana Donazione Altruistica e Gratuita dei Gameti.

Eugene Ermolovich attraverso Wikimedia Commons
"Avevo bisogno di soldi, ma..."

"Una conoscente mi ha consigliato di donare i miei ovuli perché avevo bisogno di soldi", racconta Alessandra. "La mia prima motivazione è stata questa. Mi hanno offerto 1.200 euro in cambio di un mese di disponibilità, esami, assunzione di farmaci per stimolare le ovaie e poi l'intervento di prelievo degli ovociti. Intendiamoci, però: non mi sarei mai sottoposta per soldi a una procedura rischiosa per la mia salute o per la mia fertilità. Mi sono informata, ho parlato con i medici, ho fatto mille domande a cui gli operatori hanno risposto in modo esauriente. Sono stata rassicurata e sono stata seguita con attenzione. Avevo un numero di telefono che potevo chiamare a qualsiasi ora, di giorno o di notte, per manifestare eventuali dubbi".
Stimolazione ovarica e prelievo degli ovociti, se fatti a regola d'arte, non comportano rischi significativi per la salute della donatrice. "Ormai sono procedure di routine", dice il ginecologo Andrea Borini, presidente della Società Italiana Fertilità, Sterilità e Medicina della Riproduzione, "tanto che alcuni medici, soprattutto in altri Paesi, cominciano a consigliare alle donne giovani e fertili di mettere da parte alcuni ovociti per avere l'opportunità di utilizzarli per se stesse in futuro, se dovesse presentarsi la necessità".
Prima di prendere una decisione definitiva sulla donazione, Alessandra si è documentata su Internet. "Ho letto le storie di altre ragazze che avevano intrapreso la stessa strada e, soprattutto, ho letto le storie di donne disperate per la propria sterilità che grazie all'ovodonazione avevano potuto mettere al mondo i figli tanto cercati", racconta. "Così al bisogno di soldi si è aggiunta un'altra motivazione: poter essere d'aiuto ad altre donne in difficoltà, realizzare il loro sogno. Inoltre, io in passato ho interrotto volontariamente una gravidanza. Potevo avere un figlio, ma quello per me non era il momento giusto. Donando i miei ovuli ho ristabilito una sorta di equilibrio".

Tata kurliana attraverso Wikimedia Commons
Le motivazioni di chi dona

"Nella maggior parte dei casi in Europa le donatrici sono donne che si sono sottoposte a procreazione medicalmente assistita e hanno prodotto ovociti maturi in sovrannumero. Completata la procedura, hanno deciso di non crioconservare i gameti avanzati, almeno non tutti, ma di donarne una parte", dice Volpini. "Fanno questa scelta perché hanno sperimentato in prima persona l'infertilità e il ricorso alla PMA e solidarizzano con le altre donne nella stessa situazione che hanno necessità di ovociti donati. Un'altra motivazione abbastanza comune è la donazione per un'amica. Poiché nella maggior parte dei Paesi europei vige l'obbligo di anonimato del donatore, se una donna vuole aiutare un'amica in difficoltà può fare ricorso alla donazione crociata. Va al centro per la fertilità e offre i propri ovociti. In cambio la struttura utilizza altri ovociti, di donatrice anonima, per l'intervento sull'amica".
Uno degli scopi dell'Associazione Italiana Donazione Altruistica e Gratuita dei Gameti è diffondere nel nostro Paese la cultura dell'ovodonazione come gesto motivato da solidarietà umana. "Chi dona il sangue o il midollo viene considerato generoso e altruista", osserva la psicologa. "Manca ancora, in Italia, la stessa considerazione per chi dona i gameti. È su questo aspetto, tra gli altri, che ci proponiamo di lavorare".

Leggi qui la seconda parte della storia di Alessandra: gli esami e la procedura dell'ovodonazione, con il commento del ginecologo Andrea Borini e della psicologa Laura Volpini.


lunedì 9 giugno 2014

La salute dei piccoli giramondo

US State Department via Wikimedia Commons

 Partire per una meta esotica con un bimbo piccolo è una scelta impegnativa, che richiede una buona programmazione. I dubbi dei genitori sono tanti. A che età un bambino può salire in aereo? Che fare se le condizioni igieniche sul posto lasciano a desiderare? Occorre vaccinare il bambino per proteggerlo da specifiche malattie? A queste e tante altre domande rispondono gli specialisti dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma con un Vademecum del piccolo viaggiatore, scaricabile dal sito dell'ospedale.
Ecco, in breve, alcune informazioni utili tratte dal documento per chi progetta un viaggio all'estero con un bimbo piccolo.

I viaggi internazionali non sono in assoluto controindicati ai bambini. L'importante è conoscere le condizioni igieniche del Paese che si intende visitare, i rischi specifici e informarsi su eventuali vaccinazioni obbligatorie o raccomandate per quella destinazione. Allo scopo si può consultare il sito Viaggiare Sicuri, del Ministero degli Esteri. Esempi di vaccinazioni richieste in alcuni Paesi sono quella contro la febbre tifoide, l'epatite A, la febbre gialla, la tubercolosi, il meningococco A, C, Y, W-135, l'encefalite da zecche, presente anche in diversi Paesi dell'Europa centrale. Questi vaccini possono essere somministrati ai piccoli fin dai sei mesi di vita e in caso di rischi effettivi sono uno strumento prezioso per proteggere la loro salute, ma il piano vaccinale va concordato per tempo con il pediatra, tenendo conto dell'età del bambino, del suo stato di salute, della durata e delle caratteristiche del viaggio.

I neonati, specie quelli prematuri, non dovrebbero viaggiare in aereo. Via libera per tutti gli altri. Eventuali disturbi dovuti alle piccole variazioni di pressione al decollo o all'atterraggio possono essere mitigati nei bimbi piccoli offrendo loro il biberon, il seno o il ciuccio. La confusione dei ritmi che deriva dal cambiamento di fuso orario di solito si attenua dopo i primi due o tre giorni di permanenza. È più marcata se la differenza di fuso è superiore alle quattro ore.

Nei Paesi dove le condizioni igieniche lasciano a desiderare sono più frequenti i disturbi gastrointestinali, la cosiddetta diarrea del viaggiatore, particolarmente pericolosa per i bimbi piccoli, che si disidratano più rapidamente. Alcune accortezze per limitare il rischio: lavare sempre le mani con acqua e sapone prima di mangiare, utilizzare acqua in bottiglia sigillata, anche per la preparazione del ghiaccio, evitare frutta non sbucciata e verdure crude, carne o pesce crudi o poco cotti, latte non bollito e formaggi di provenienza incerta. In caso di infezione gastrointestinale, è importante idratare spesso il bimbo colpito con acqua e, possibilmente, l'aggiunta di sali reidratanti da acquistare in farmacia prima del viaggio e mettere in valigia.

Infine, attenzione ai colpi di calore: evitare l'esposizione diretta e prolungata dei bambini ai raggi del sole nei Paesi a clima caldo, evitare anche gli ambienti molto umidi e poco ventilati.

Buon viaggio!

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venerdì 6 giugno 2014

Ovaio policistico: un trucco dell'evoluzione


Dea della fertilità via Wikimedia Commons

Le donne affette da Sindrome dell'Ovaio Policistico sono geneticamente "programmate" per generare figli in periodi di carestia. È l'ipotesi sostenuta da Enrico Ferrazzi, direttore della Clinica Ostetrica e Ginecologica all’Ospedale Buzzi di Milano e vicepresidente del comitato scientifico dell'Associazione per lo Studio delle Malformazioni.
La sindrome colpisce dal 7 al 15% di tutte le donne in età fertile. Nonostante predisponga alla subfertilità, dunque, il tratto genetico della PCOS è presente in un'ampia percentuale della popolazione femminile. Come mai si è conservato nel corso dell'evoluzione umana e non è stato cancellato dai meccanismi della selezione naturale? L'ipotesi, sempre più condivisa dalla ricerca scientifica, è che le donne con ovaio policistico abbiano una precisa funzione nella preservazione della specie umana.
"In condizioni di carestia, di forte restrizione calorica, l'ovaio normale cessa di funzionare", spiega Ferrazzi. "Lo vediamo nei casi di anoressia, o nelle donne sottoposte a intenso sforzo fisico e scarsa alimentazione, come capita a volte alle ballerine. L'ovaio policistico, invece, funziona al meglio proprio in queste condizioni. Poiché le carestie hanno da sempre accompagnato la storia del genere umano, il tratto genetico della PCOS si è preservato in un'alta percentuale della popolazione umana perché in tempi di carestia chi si riproduceva erano appunto le donne con ovaio policistico. Oggi la PCOS si manifesta soprattutto nei Paesi occidentali dove l'eccesso calorico è la regola alimentare. Particolarmente nocivi, per le donne che ne soffrono, sono lo zucchero e i carboidrati derivati da cereali raffinati. Per attenuare le manifestazioni della sindrome, ancor prima di ricorrere ai farmaci è necessario adeguare le abitudini alimentari: mangiare molta frutta e verdura (600-700 grammi al giorno), pesce, pollame, molluschi, uova, legumi, cavoli, verze e noci, ricchi di acidi grassi omega-3, ridurre a poche porzioni settimanali i carboidrati derivati dai cereali, i dolci, la carne rossa, gli affettati, i formaggi e il latte, il sale e integrare la dieta con alimenti probiotici (yogurt con fermenti vivi)".

mercoledì 4 giugno 2014

Essere mamme con la sclerosi multipla

mahalie stackpole attraverso Wikimedia Commons


"Sclerosi multipla" è un nome che fa paura, quello di una malattia che attacca il cervello e il midollo spinale e blocca la trasmissione degli impulsi nervosi con una varietà di sintomi: disturbi della vista, della sensibilità, della coordinazione, disturbi cognitivi e del linguaggio, per citare i più comuni. Le cause non sono state ancora determinate con certezza e il decorso è imprevedibile.
Fino a pochi anni fa, le donne affette da sclerosi multipla non prendevano neppure in considerazione l'idea di avere un bambino. Oggi, grazie alla possibilità di diagnosticarla precocemente e alla disponibilità di terapie sempre più efficaci, la malattia fa meno paura e chi ne soffre riesce a mantenere a lungo una buona qualità di vita. Così negli ultimi anni è aumentato il numero delle donne diagnosticate in età fertile che non hanno voluto rinunciare al desiderio di maternità e hanno portato a termine l'attesa con successo.
Avere un figlio con la sclerosi multipla è possibile, a patto di informarsi correttamente e appoggiarsi a una struttura specializzata. In occasione della XV Settimana Nazionale della Sclerosi Multipla, l'Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli ha pubblicato un opuscolo informativo rivolto alle donne affette da questa malattia che stanno considerando l'idea di una gravidanza.
L'attesa di un bambino comporta rischi di peggioramento della SM? La patologia può essere trasmessa al nascituro? I farmaci per il controllo della sclerosi multipla sono dannosi per la salute e lo sviluppo del feto? Sono alcune delle domande a cui rispondono il neurologo, il ginecologo, lo psicologo, il neuroradiologo, l'esperto di patologie vascolari e il nutrizionista della struttura napoletana, per uno sguardo a tutto tondo sull'argomento.

Il vademecum del Centro Regionale Sclerosi Multipla dell'AOU Federico II è scaricabile qui in PDF.

lunedì 2 giugno 2014

4 cose che dovete sapere sull'asma dei bambini

National Heart, Lung and Blood Institute attraverso Wikimedia Commons


"Con l'asma non si scherza: la rinite può essere fastidiosa, ma l'asma può mandare un bambino in rianimazione", dice Stefano Miceli Sopo, pediatra allergologo del Policlinco Gemelli di Roma. "È importante, quindi, che i genitori di un bimbo che soffre d'asma conoscano il disturbo e sappiano come gestirlo".
Ecco quattro cose dell'asma che è importante sapere.

1. Nei bambini piccoli, sotto i cinque anni di età, l'asma insorge più frequentemente come conseguenza di un'infezione delle vie respiratorie. Nei più grandi, dai 5 in sù, la causa più frequente è una reazione allergica. "In ogni caso, l'asma è una condizione di iperattività bronchiale", spiega il pediatra. "Il bambino che ne soffre è predisposto a questa reazione in risposta a diversi fattori ambientali: infezioni, allergeni, sforzo fisico, fumo, smog e anche nebbia. Se una volta la causa scatenante è stata un virus, la volta successiva può essere l'esposizione al fumo".

2. Spesso l'asma insorge nei bambini predisposti poco alla volta, con un crescendo di sintomi che inizialmente non vengono riconosciuti: tosse notturna, fiato corto dopo l'attività fisica, tosse in risposta a uno sforzo. "Altre volte, la prima manifestazione è una crisi seria improvvisa", avverte Miceli Sopo. "In questi casi, se il bambino ha difficoltà a respirare, va portato immediatamente al pronto soccorso".

3. Quando un bambino soffre d'asma e questa condizione è stata correttamente diagnosticata, il pediatra di famiglia istruisce i genitori su quel che bisogna fare in caso di crisi importante. "La condotta da seguire è questa: somministrare al piccolo una dose di salbutamolo, secondo la prescrizione del pediatra. Se il farmaco non sortisce alcun effetto apprezzabile entro pochi minuti, ripetere l'inalazione", dice il pediatra. "Se dopo tre inalazioni successive non si osserva ancora alcun beneficio, bisogna dare al bambino una dose di cortisone per via orale, secondo la prescrizione del medico curante, e quindi portarlo al pronto soccorso".

4. Il farmaco di prima scelta nel trattamento dell'asma dei bambini, indifferentemente dalla causa scatenante della crisi, è il salbutamolo. "Quando però le crisi si manifestano almeno due volte a settimana o il disturbo impedisce il riposo notturno almeno per due notti al mese, occorre affiancare le somministrazioni di salbutamolo con una terapia quotidiana di cortisone per via inalatoria", spiega Miceli Sopo. "I genitori sono restii a somministrare il cortisone ai loro figli, perché temono che il farmaco abbia pesanti effetti collaterali. In realtà, gli studi più recenti rassicurano sulla buona tollerabilità del cortisone. L'unico effetto indesiderato apprezzabile del farmaco è un rallentamento della crescita, che però si manifesta solo in caso di assunzione quotidiana per un anno o più, è minimo, dell'ordine di un centimetro all'anno, ed è reversibile: al termine della terapia, la crescita viene rapidamente recuperata. Al contrario, non trattare adeguatamente l'asma può avere conseguenze gravi sulla salute del bambino. L'asma stesso, non trattato, può rallentare la crescita".

domenica 1 giugno 2014

Bambini: i rischi del fumo passivo



In Italia il 49% dei bambini dalla nascita fino al quinto anno di età ha almeno un genitore fumatore. Il 12% li ha entrambi. Per un neonato su cinque è la mamma a fumare ed esporre il piccolo ai danni derivati dalla combustione del tabacco. E non basta che la mamma o il papà escano in balcone con la sigaretta per non viziare l'aria dentro casa. "Al rientro il genitore, con i vestiti impregnati di sostanze tossiche, prende il braccio il bambino, che le respira comunque", avverte Renato Cutrera, responsabile dell'Unità di Broncopneumologia dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
Le potenziali conseguenze dell'esposizione al fumo passivo per i bambini, specie nei primi mesi di vita, sono tante e serie: infiammazione delle vie respiratorie, riduzione della funzionalità polmonare, maggiore vulnerabilità alle infezioni respiratorie e alle otiti, predisposizione alle allergie, asma.
Il fumo passivo aumenta anche il rischio di SIDS, la morte per soffocamento in culla. "È stato calcolato che l'eliminazione completa del fumo passivo nel primo anno di vita ridurrebbe di un terzo l'incidenza della SIDS", dice Cutrera.
Giacomo Mangiaracina, presidente dell'Agenzia Nazionale per la Prevenzione, illustra in questo video i rischi per i bambini dell'esposizione al fumo passivo, in occasione del lancio della campagna Polmone Rosa, a Roma il 31 maggio 2014.





I rischi aumentano se a fumare è la neomamma che allatta al seno il suo bimbo. Come in gravidanza le sostanze tossiche presenti nel fumo superano la barriera della placenta e raggiungono il feto, così in allattamento contaminano il latte destinato al bambino.
Ne parla in questo video Vincenzo Zagà, pneumologo dell'AUSL di Bologna e caporedattore di Tabaccologia, la rivista ufficiale della Società Italiana di Tabaccologia, intervistato anche lui al lancio di Polmone Rosa.


Il fumo nemico della cicogna



È aumentata in Italia la percentuale di donne fumatrici: dal 15,3% del 2013 al 18,9% dei primi mesi del 2014. La prevalenza maggiore di fumatrici è nella fascia d'età dai 25 ai 44 anni (26% delle donne), cioè in piena età fertile, negli anni in cui più frequentemente le Italiane pianificano una gravidanza. Sono i dati rilevati dalla Doxa per conto dell'Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con l'Istituto Farmacologico Mario Negri di Milano, in occasione della Giornata Mondiale senza Tabacco e della Giornata Nazionale del Respiro.
Fumare nuoce gravemente alla salute, ma non solo. Nuoce anche ai progetti di maternità (e di paternità), perché le sostanze tossiche prodotte dalla combustione del tabacco si accumulano nelle ovaie e interferiscono con il processo di maturazione degli ovociti. Nell'uomo, alterano la motilità e la vitalità degli spermatozoi. In parole povere: concepire diventa più difficile.
Fumare in gravidanza, poi, aumenta il rischio di interruzione spontanea, di difetti congeniti, di parto pretermine e basso peso alla nascita per insufficienza placentare. Il bambino che è stato esposto in utero al fumo materno ha un rischio aumentato di asma, allergie, soffocamento in culla, è più vulnerabile alle infezioni respiratorie.
Le donne intenzionate ad avere figli hanno una ragione in più per rinunciare alle sigarette, come spiega in questa video intervista Giacomo Mangiaracina, presidente dell'Agenzia Nazionale per la Prevenzione, organizzatore della campagna Polmone Rosa, lanciata oggi a Roma.