mercoledì 27 settembre 2017

Non lasciate le mamme da sole!

Da alcuni giorni si discute di violenza ostetrica, di maltrattamenti e abusi nei confronti delle donne che partoriscono, di mamme che vivono la nascita del proprio bimbo come un'esperienza di solitudine, paura e impotenza. Un'amica ostetrica con cui ne ho parlato osserva che il problema sarebbe in gran parte risolto se tutte le donne in travaglio potessero godere di assistenza dedicata e continua, anche nei momenti in cui non è necessario alcun intervento clinico e c'è solo da aspettare, la cosiddetta assistenza one-to-one. Assistenza rispettosa, ovviamente.

Avere accanto una persona di fiducia non giova solo alla serenità della partoriente, al suo benessere psicologico, ma anche al buon esito del parto e alla salute di mamma e figlio. Giova in modo tangibile e misurabile, come dimostra una revisione della letteratura medica pubblicata giusto qualche settimana fa dalla Cochrane Library, che analizza i risultati di 27 studi condotti su oltre 15.000 donne provenienti da una varietà di Paesi in condizioni igieniche e socio-economiche differenti. L'assistenza continua durante il travaglio e il parto, dimostra la review, è associata a una maggior frequenza di parto vaginale spontaneo e a una minore necessità di far ricorso a taglio cesareo, episiotomia, forcipe o ventosa, a una minore richiesta di analgesia, a minore durata del travaglio e, per il bambino, a una minore probabilità di avere basso indice di Apgar a cinque minuti dalla nascita. L'indice di Apgar, lo ricordiamo, è un parametro di valore compreso tra 0 e 10, che descrive le condizioni di salute del neonato: frequenza cardiaca, riflessi, colorito, tono muscolare e respirazione.

Che cosa vuol dire assistenza durante il travaglio e il parto? Assistenza medica? Compagnia, conforto? La revisione della Cochrane non fa distinzioni da questo punto di vista: l'evidenza dei benefici riguarda donne assistite da ostetriche, infermiere, doule, parenti o persone amiche e concretamente si manifesta come conforto emotivo, compagnia, aiuto a cambiare posizione e deambulare, massaggi, offerta di cibo e bevande, informazioni, mediazione con il personale sanitario. “È sufficiente la sola presenza di una persona che funga da testimone del vissuto e delle emozioni della partoriente, per ottenere dei vantaggi evidenti”, dice Laura Castellarin, ostetrica co-fondatrice dell'associazione Nascere Insieme. “I benefici descritti da questa ricerca sono legati alla continuità del sostegno e non riguardano in modo specifico l'assistenza ostetrica. Ciò nulla toglie all'importanza della figura professionale dell'ostetrica, l'unica che unisce l'abilità di accompagnamento alle competenze cliniche e che è preparata per l'assistenza nella fisiologia, al contrario del medico che ha competenze specifiche per intervenire in condizioni di patologia. I vantaggi dell'assistenza ostetrica continua e dedicata alla singola partoriente sono ben conosciuti e documentati da una mole di altre ricerche”.

Non “siamo fatte” per partorire da sole



Qualche tempo fa mi sono imbattuta in uno studio molto interessante. È del 1995, pubblicato sulla rivista Evolutionary Antropology, a firma delle antropologhe Wenda Trevathan e Karen Rosenberg, e si intitola “Bipedalism and Human Birth: the Ostetrical Dilemma Revisited”.
Quando i nostri antenati hanno abbandonato l'andatura quadrupede per assumere la posizione eretta, la struttura del bacino delle loro femmine è mutata, spiegano Trevathan e Rosenberg. Non solo il canale del parto si è fatto più stretto in proporzione alle dimensioni della testa del nascituro, rispetto a quello degli altri primati, ma la sua conformazione è cambiata in modo tale che il piccolo ominide al passaggio attraverso le pelvi materne è costretto a effettuare delle giravolte, per accomodare i diversi diametri della testa e delle spalle. Il risultato è che negli altri primati alla nascita il piccolo emerge con il viso voltato nello stesso verso di quello della partoriente, mentre nei nostri antenati e nell'uomo moderno nella maggior parte dei casi emerge con il viso rivolto nel verso opposto.
A questa trasformazione imposta dal passaggio all'andatura bipede, si è sommato l'aumento delle dimensioni del cranio umano per fare spazio a un cervello sempre più voluminoso. I piccoli umani non possono completare in utero lo sviluppo del cervello, altrimenti la loro testa diventerebbe troppo grande per passare attraverso il canale del parto. Lo completano nel corso del tempo, nei primi anni di vita. Alla nascita le loro competenze motorie, dunque, sono immature rispetto a quelle dei neonati degli altri primati e non sono in grado di collaborare attivamente come fanno, per esempio, gli scimpanzé.
L'ampiezza del canale del parto rispetto al cranio del neonato dello scimpanzé, della nostra antenata Lucy e della donna moderna

Le femmine dei primati non umani, spiegano le autrici dello studio, partoriscono da sole, in un luogo isolato, al sicuro da eventuali predatori ma anche lontano dagli occhi degli altri individui del gruppo di appartenenza. Il piccolo alla nascita si districa da solo dal cordone e la madre, che lo espelle in posizione accovacciata, lo afferra agevolmente e lo solleva fino al seno per avviare l'allattamento.
Anche le femmine dei nostri antenati ominidi e le donne moderne partorivano e partoriscono di preferenza in posizione accovacciata, laddove non viene imposto loro diversamente, ma non possono afferrare il neonato e sollevarlo in avanti con altrettanta facilità, perché il piccolo ha il viso e la spina dorsale orientati nel verso opposto. Inoltre, qualcuno deve aiutare il neonato a districarsi se ha il cordone arrotolato intorno al collo o al corpo, perché da solo non ce la fa.

La femmina umana ha bisogno di assistenza per dare alla luce i suoi piccoli e la selezione naturale ha premiato le nostre antenate che cercavano il sostegno e il conforto dei propri simili durante il travaglio e il parto. Secondo l'ipotesi rivoluzionaria di Wenda Trevathan e Karen Rosenberg, il dolore, la paura e il senso di smarrimento che tutte le donne provano in procinto di partorire sono escamotage evolutivi per spingere la femmina umana a cercare aiuto. Il desiderio della presenza di una persona fidata al momento della nascita è profondamente radicato nella storia della nostra evoluzione.

Chi accompagna la donna


Storicamente la continuità dell'assistenza alle donne, nel periodo della gravidanza, del parto e del puerperio, è sempre stata svolta dall'ostetrica, sia che fosse diplomata, sia che tale ruolo le venisse riconosciuto dalle altre donne”, spiega Susanna Marongiu, ostetrica del consultorio familiare di Monserrato, in provincia di Cagliari. “In genere l'ostetrica e il medico di famiglia erano le uniche due figure che avevano conoscenze di anatomia e fisiologia del corpo umano e, più in generale, di medicina. È evidente che per poter ricoprire tale ruolo, soprattutto quando questo le veniva conferito dalla stessa popolazione, l'ostetrica doveva avere anche altri requisiti, come l'empatia, la riservatezza, la fiducia, la complicità, la capacità di ascolto e di comunicazione. Era indispensabile, a tale proposito, che fosse una donna dello stesso contesto culturale, sociale e ambientale. Questi ultimi requisiti cominciarono a venire meno con la scolarizzazione delle ostetriche e con l'obbligatorietà per i Comuni di assumere nel proprio organico un'ostetrica diplomata. Ciò ha comportato l'inizio di un fenomeno migratorio, dovuto alla scarsità di ostetriche diplomate e alle poche Università abilitate a tale scopo. Quindi le ostetriche diplomate cominciarono a essere estranee al luogo di lavoro e alla popolazione di riferimento. In moltissime realtà ciò ha comportato la convivenza dell'ostetrica diplomata e delle donne esperte di parto, le cosiddette empiriche o donne pratiche. Spesso le donne esperte erano anziane della comunità, già madri, o coetanee che avevano vissuto esperienze di maternità e di parto”.

Lo scrivono anche gli autori della revisione Cochrane sui benefici dell'accompagnamento: un tempo le partorienti davano alla luce i loro bimbi alla presenza delle altre donne del clan familiare o della comunità di appartenenza. L'assistenza continua era la norma. Oggi, con l'uso prevalente di partorire in ospedale, in molti contesti l'assistenza continua è diventata l'eccezione. “È abbastanza difficile oggi che in un ospedale italiano la donna possa godere di assistenza ostetrica continua e dedicata in travaglio”, dice Laura Castellarin. “Capita talvolta nei piccoli centri nascita, dove la frequenza dei parti è relativamente bassa. Nelle grandi strutture, con molti accessi, di solito un'ostetrica si trova a seguire contemporaneamente diverse donne. Per garantire l'assistenza one-to-one, occorre che la direzione sanitaria dell'ospedale faccia uno sforzo organizzativo consapevole. Non è una questione economica, perché è dimostrato che l'assistenza one-to-one riduce il rischio di complicanze e dunque di costosi interventi medici. Il ritorno economico ci sarebbe e giustificherebbe l'investimento. Oggi però si tende a credere che sia meglio investire in tecnologia piuttosto che in risorse umane. Invece la ricerca dimostra che nel caso dell'assistenza al parto è proprio il fattore umano che fa la differenza”. Il risultato è che spesso la donna in travaglio rimane a tratti da sola, nelle fasi meno impegnative dal punto di vista clinico.

Da questo punto di vista, le piccole strutture offrono condizioni migliori rispetto alle grandi, dove invece il personale ha maggiore esperienza nel trattamento delle emergenze e delle complicazioni. Felici eccezioni sono i grandi ospedali attrezzati per garantire cure continue e dedicate, nel rispetto della fisiologia, oltre ad avere le risorse umane e tecniche per intervenire in modo rapido ed efficace nell'urgenza e nella patologia.

I familiari, gli amici, la doula


Ecco perché conviene che la partoriente sia accompagnata da una persona amica, che possa effettivamente dedicarsi a tempo pieno a lei. “È opportuno indipendentemente dalla possibilità di avere assistenza ostetrica continua one-to-one”, precisa Castellarin, “perché l'accompagnatore o l'accompagnatrice della partoriente è una persona familiare, al contrario dell'ostetrica che spesso è un'estranea, e la futura mamma ha l'esigenza di essere confortata da una persona familiare, che faccia anche da tramite con i sanitari”.

E se la partoriente non avesse modo di farsi accompagnare dal partner, da una parente o da un'amica? “In questo scenario emergono nuove figure che sostituiscono il clan femminile di altri tempi e che possono in parte colmare le lacune dell'assistenza ostetrica, laddove le ostetriche sono numericamente insufficienti oppure individualmente poco disponibili a farsi carico anche delle esigenze emotive della donna”, dice Susanna Marongiu, “Sono le cosiddette doule, o assistenti alla maternità, o custodi della nascita, che svolgono una funzione di vicinanza emotiva e di sostegno che è altrettanto importante quanto quella sanitaria. Le loro prestazioni non sono atti solidaristici a favore di un'amica o di una parente, quindi richiedono un compenso. Assistiamo così alla nascita di una nuova professione, che però non è ancora disciplinata da alcuna legge, al contrario di altre professioni sanitarie, come quella del medico e dell'ostetrica”.

La doula naturalmente non può e non deve sostituirsi all'ostetrica nel ruolo di assistente clinica. “A questa condizione, se non c'è competizione o sovrapposizione, la presenza della doula è una risorsa preziosa non solo per la futura mamma ma anche per l'ostetrica”, commenta Castellarin.
Alessia Martini è una doula in formazione che fa parte, come Laura Castellarin, dell'associazione Nascere Insieme. “Ostetrica e doula sono due attività differenti, ma con un comune denominatore”, spiega. “Consentire a madre, padre e bambino la migliore esperienza perinatale possibile. L'ostetrica è una figura professionale del comparto sanitario, è iscritta a un albo e opera nell'ambito della fisiologia della nascita: offre le proprie abilità professionali, competenze e informazioni scientifiche. La doula invece è semplicemente una persona che offre il proprio sostegno, emotivo e materiale, con competenze esclusivamente relazionali e conoscenze spesso acquisite da una propria esperienza di maternità. Il focus della doula è la persona, la mamma, il suo ruolo è di facilitatrice, di confidente: offre ascolto, conforto, accoglienza, è custode di momenti di grande rilevanza emozionale. La doula sgrava l'ostetrica dagli aspetti relazionali ed emotivi quando è essenziale che l'ostetrica concentri tutte le attenzioni sul versante sanitario”.



martedì 12 settembre 2017

Antibiotici: attenti al miraggio dei test fai-da-te


Torna la pioggia e riaprono le scuole. Tempo qualche settimana e riprenderanno a circolare raffreddore, tosse e febbre. In farmacia c'è un'insidiosa novità: i self test per determinare se un'infezione è virale o batterica. Attenzione: il fai-da-te con gli antibiotici è pericoloso!

Qualche mese fa ho letto un post sul blog di una mamma che cantava le lodi di un prodotto appena uscito in commercio in Italia: un test fai-da-te acquistabile in farmacia per determinare in cinque minuti se un bimbo ha la tosse e il raffreddore a causa di un virus oppure ha un'infezione batterica trattabile con gli antibiotici. “Antibiotico sì o no”, si chiama proprio così il test. Il post è promozionale, realizzato in collaborazione con l'azienda che produce il dispositivo. È scritto chiaramente in fondo alla pagina.

L'autrice spiega che è sbagliato somministrare di propria iniziativa antibiotici al bambino che ha i sintomi di un'infezione respiratoria senza sapere se è virale o batterica, perché gli antibiotici non sono efficaci contro i virus, perché sono gravati da effetti indesiderati, perché il loro uso sconsiderato è causa di resistenza dei batteri. Sono perfettamente d'accordo.

E come si fa a stabilire se un'infezione è virale o batterica? “Si può andare dal pediatra”, risponde l'autrice, “oppure utilizzare un self-test rapido (e in caso di positività o mancata remissione dei sintomi recarsi dal medico)”. Occhio al contenuto della parentesi, perché è importante e ci ritornerò.

Caspita, mi sono detta, qualcuno è riuscito finalmente a mettere a punto un test rapido, economico e affidabile per distinguere le infezioni virali da quelle batteriche. È il Santo Graal della diagnostica delle malattie infettive. A quanto mi risulta, ci lavorano da decenni in tutto il mondo. Uno strumento del genere darebbe una bella mano a combattere la resistenza agli antibiotici. Strano, però, che la notizia di un simile risultato non sia circolata prima che il test entrasse in commercio.


Come funziona il self test


Ho cercato informazioni sul prodotto in questione. È un presidio medico-diagnostico in vitro regolarmente registrato e prodotto da un'azienda conosciuta nel settore. Il kit in vendita contiene un pungidito e tutto l'occorrente per raccogliere una goccia di sangue e analizzarla.

Su quale principio si basa il test? Il dispositivo misura la concentrazione nel sangue della proteina C-reattiva, prodotta dal sistema immunitario in risposta a un'infezione o ad altri stimoli infiammatori. La concentrazione, afferma il foglietto illustrativo, è maggiore quando l'infezione è batterica, minore quando è virale. E il test è estremamente affidabile. “La precisione di oltre il 95% è stata documentata da uno studio di valutazione delle prestazioni del prodotto”, si legge nel foglietto.

C'è un problema, però: la precisione del 95% si riferisce alla capacità del prodotto di misurare la concentrazione di proteina nel sangue e non alla sua affidabilità diagnostica, perché non è sempre vero che a livelli elevati della proteina corrisponde un'infezione batterica e a bassi livelli corrisponde un'infezione virale. “Per esempio, nelle fasi iniziali di un'infezione batterica la concentrazione può mantenersi bassa. Al contrario, può essere molto elevata in presenza di alcune infezioni da adenovirus, dunque virali”, spiega Liviana Da Dalt, che dirige il Pronto Soccorso Pediatrico e Pediatria d'Urgenza dell'Ospedale di Padova e ha pubblicato diversi studi sull'utilizzo della proteina C-reattiva come marcatore per la diagnosi delle infezioni. “Non conosco questo specifico prodotto, ma la concentrazione della proteina, per quanto sia misurata con precisione, non è un dato assoluto. Ci piacerebbe che lo fosse, perché siamo alla ricerca di marcatori assoluti per la diagnosi delle infezioni batteriche. Per il momento, purtroppo, non ne abbiamo trovato nessuno”.

No al fai-da-te


“Data l'assenza di un parametro assoluto da misurare”, prosegue Da Dalt, “il risultato di qualunque test di laboratorio va interpretato alla luce dell'esame clinico del paziente. Cioè deve essere il medico, dopo avere visitato il paziente, a fornire la diagnosi e a prescrivere il trattamento più appropriato”.

Gli antibiotici non sono farmaci da automedicazione. Per acquistarli occorre la ricetta del medico e sarebbe un errore assumere o somministrare eventuali residui avanzati a casa nell'armadietto dei medicinali. “Sono strumenti di grande utilità, ma solo se vengono usati in modo appropriato”, dice Maurizio De Martino, direttore della Clinica Pediatrica dell'Ospedale Meyer di Firenze e responsabile del gruppo di lavoro sull'uso corretto dei farmaci della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale. “Il pediatra deve vedere di persona il bambino, visitarlo, richiedere o effettuare direttamente in ambulatorio eventuali esami e poi, se è il caso, prescrivere un antibiotico, anche perché esistono tanti batteri diversi e per ognuno c'è uno specifico antibiotico che ottimizza il risultato”.

Che cosa bisognerebbe fare, allora, portare il bambino dal pediatra al primo colpo di tosse, alla prima linea di febbre? “Non è necessario, perché la maggior parte delle infezioni delle vie respiratorie è di origine virale e si risolve spontaneamente nell'arco di tre o quattro giorni”, risponde De Martino. “I genitori possono tranquillamente attendere un paio di giorni che febbre e raffreddore passino da soli, somministrando al bambino del paracetamolo all'occorrenza per attenuare il suo disagio. Se l'infezione persiste o il piccolo ha l'aspetto decisamente sofferente, è il caso di rivolgersi al medico”.

Mamma e papà sono le persone più qualificate per rendersi conto delle condizioni del loro bimbo. “Lo conoscono meglio di chiunque altro e capiscono se sta soffrendo, se è particolarmente giù di tono, se il suo comportamento è anomalo”, dice Da Dalt. “Su questo aspetto è necessario che il pediatra ascolti e tenga da conto il parere dei genitori. Sull'interpretazione dei test diagnostici, invece, la parola spetta al medico”.

Concludendo


Ricordate l'avvertenza tra parentesi nel post promozionale del test? “In caso di positività o mancata remissione dei sintomi recarsi dal medico”. Lo dice anche il foglietto illustrativo del dispositivo: il test non può sostituire la diagnosi del medico curante e in caso di positività o se i sintomi persistono bisogna rivolgersi al dottore. È tutto in regola, dunque, non c'è alcun invito ai genitori a fare da sé o a somministrare antibiotici senza prescrizione. Ma allora a che cosa serve questo test? E perché si chiama “Antibiotico sì o no”?

Ho letto quel post promozionale la scorsa primavera e da allora non ho più sentito parlare del dispositivo, forse perché nei mesi estivi non c'era alcun vantaggio a promuoverlo, ma ci metto la mano sul fuoco che con l'arrivo dei primi raffreddori verrà opportunamente pubblicizzato e magari in tempi brevi arriveranno in farmacia prodotti analoghi di altre aziende. Ecco perché oggi scrivo queste righe. Non fatevi trarre in inganno dal miraggio del fai-da-te.