mercoledì 13 dicembre 2017

Contraccezione gratuita e consapevole: 8 obiezioni, 8 risposte

Foto di Marina Toschi, editing di Eleonora Cirant
È passata una settimana dal giorno in cui il Comitato per la contraccezione gratuita e consapevole, di cui faccio parte, ha lanciato sulla piattaforma Change.org una petizione per chiedere ad AIFA e Ministero della Salute la rimborsabilità dei mezzi contraccettivi essenziali per garantire il diritto alla salute sessuale e alla procreazione responsabile. Abbiamo diffuso la notizia attraverso i canali della stampa e dei social media e siamo molto contenti dell'interesse suscitato e del contatore delle firme che avanza sempre più.

I nostri post e gli articoli che parlavano della petizione hanno raccolto anche diverse obiezioni. Alcune sono poco più che provocazioni. “Perché una donna anziana dovrebbe contribuire con le sue tasse alla contraccezione dei giovani?”, chiede qualcuno nei commenti di un giornale. Potrei rispondere: perché una persona senza figli dovrebbe contribuire con le sue tasse alla scuola pubblica? O un non vedente all'illuminazione stradale?

Altre obiezioni sono interessanti e meritano una riflessione più approfondita. Ho raccolto le più comuni e ho consultato gli specialisti che fanno parte del Comitato o che hanno aderito alla nostra campagna per aiutarmi a replicare.

In Italia si fanno sempre meno figli. Anziché offrire contraccettivi gratuiti, incoraggiamo a fare più bambini!


“Nei Paesi in cui la contraccezione è più diffusa, come la Francia e la Svezia, si fanno più figli che nei Paesi come Irlanda e Italia”, osserva Elisabetta Canitano, ginecologa consultoriale di Roma. “Non è la facilità di accesso alla contraccezione che ostacola la procreazione, ma la scarsa attenzione alle necessità delle donne e delle famiglie. E la contraccezione a pagamento è un esempio di questa scarsa attenzione. Più le donne e le famiglie percepiscono di avere tutto sulle proprie spalle e meno figli fanno”.
Personalmente condivido al 100% l'appello di chi chiede un welfare più attento alle famiglie con figli, strutture pubbliche per i bambini, strumenti più efficaci per conciliare lavoro e famiglia. Queste richieste non sono alternative a quella della rimborsabilità dei contraccettivi. Tutt'altro: vanno nella stessa direzione.
“Va detto, poi, che la contraccezione ha anche un ruolo protettivo della fertilità”, aggiunge Canitano. “Si pensi ai preservativi, che difendono da malattie a trasmissione sessuale come la clamidia, una delle prime cause di subfertilità e infertilità femminile. Se più giovani ne facessero uso nella fase della loro vita in cui non vogliono ancora avere figli, si risparmierebbero tante brutte sorprese più avanti negli anni, quando le conseguenze di un'infezione passata possono minare un progetto di gravidanza”.

Contraccettivi gratuiti vuol dire a carico del contribuente. Perché dovremmo affrontare questa ulteriore spesa in tempi di crisi economica?


“Innanzi tutto perché la legge prevede che lo Stato incoraggi la procreazione responsabile tra i cittadini”, risponde l'epidemiologo Michele Grandolfo, già direttore del reparto Salute della Donna e dell'Età Evolutiva del Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la Promozione della Salute. “La n.405 del 29 luglio 1975 cita tra gli scopi dell'assistenza alle famiglie e alla maternità 'la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile, nel rispetto delle convinzioni etiche e dell'integrità fisica degli utenti' e la legge 194 del 22 maggio 1978 ribadisce che 'lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile'. Anche il Progetto Obiettivo Materno Infantile, introdotto dal Ministero della Salute nel 2000 prevede programmi di counselling sulla procreazione responsabile e la salute sessuale e l'offerta attiva di mezzi contraccettivi. E non si può fare offerta attiva senza la gratuità”.
La rimborsabilità dei contraccettivi non è una spesa, ma un investimento nella prevenzione, che ripaga con gli interessi. “Prevenire le gravidanze indesiderate vuol dire ridurre i costi delle interruzioni volontarie”, spiega Grandolfo. “È impossibile eliminare del tutto il ricorso all'aborto, ma con un buon piano di counselling e l'offerta gratuita dei mezzi anticoncezionali si potrebbero dimezzare le richieste di interruzione. Basti pensare che l'introduzione sul mercato italiano della contraccezione di emergenza ha ridotto del 5% il numero degli aborti da un anno all'altro. Per come viene fatta oggi in Italia, in anestesia totale e con l'esigenza di ricovero ospedaliero, un'interruzione volontaria costa circa 1000 euro e nel 2016 ne sono state effettuate 84.874”.
A queste spese da mancata contraccezione si sommano quelle relative alla cura delle malattie a trasmissione sessuale e dei problemi di salute che possono derivare da gravidanze indesiderate portate avanti, da gravidanze troppo ravvicinate o non programmate.
“I soldi a disposizione della sanità pubblica, anche quelli per attuare un serio piano di counselling per la procreazione responsabile, ci sarebbero, ma vengono sprecati in diagnostica e trattamenti inappropriati. Si tratta di decidere come allocare le risorse e tagliare gli sprechi”, conclude Grandolfo.

Perché non incentivare, piuttosto, la contraccezione naturale, che è gratuita e non ha effetti collaterali?


“I metodi naturali basati sulla conta dei giorni o l'esame del muco cervicale hanno margini di errore notevoli, fino al 30%. Non mi sentirei di consigliarli a chi non desidera assolutamente una gravidanza, se mai solo per distanziare le nascite”, risponde Marina Toschi, ginecologa consultoriale a Perugia. “E voglio ricordare che non proteggono dalle malattie a trasmissione sessuale. Non parliamo poi del coito interrotto, il metodo naturale più utilizzato, che ha un margine di sicurezza molto basso e non rassicura la donna, condizionando la riuscita al buon comportamento, alla volontà e alla capacità maschile”.
Detto ciò, attuare un programma di promozione della procreazione responsabile non vuol dire escludere o disincentivare i metodi contraccettivi naturali. “Il ruolo del personale che fa counselling, dal medico di medicina generale agli specialisti del consultorio, è di aiutare il singolo e la coppia ad analizzare la situazione, esprimere le proprie preferenze e sviluppare le competenze per scegliere in autonomia il mezzo contraccettivo più adatto a loro”, osserva Michele Grandolfo. “Va benissimo la scelta di usare metodi naturali, se è questo che vogliono i diretti interessati, dopo essere stati informati sui limiti di questo approccio e sul modo migliore per metterlo in atto. Alla base di tutto c'è la conoscenza del proprio corpo e della fisiologia della riproduzione. Con la giusta preparazione, la fallibilità dei metodi naturali diminuisce. Al contrario, senza le dovute conoscenze e attenzione, anche la pillola fallisce perché ci si dimentica di prenderla”.

Se offriamo contraccettivi gratuiti agli Italiani, solo gli immigrati continueranno a fare tanti figli e tra un paio di generazioni ci sostituiranno!


Tralasciando le mie considerazioni personali sul pensiero che sottende questo tipo di obiezione, gli stranieri di recente immigrazione sono una delle categorie che trarrebbe maggiore beneficio da un programma di counselling e dall'offerta gratuita dei mezzi contraccettivi, perché si trovano spesso in condizioni di isolamento sociale e disagio economico e non sanno o non possono accedere agli strumenti necessari per regolare la propria fecondità.
“I migranti che arrivano da noi si adattano immediatamente alla riduzione del numero di figli”, dice Elisabetta Canitano. “Sono venuti per stare meglio, quindi non vogliono una famiglia numerosa e affamata come avrebbero avuto a casa. Fanno ricorso all'interruzione di gravidanza e, se sono correttamente informati e sostenuti, fanno ricorso alla contraccezione spesso più degli Italiani”.

Offrire contraccettivi gratuiti ai giovani vuol dire incoraggiarli ad avere rapporti sessuali. Puntiamo piuttosto sull'educazione!


“Offrire contraccettivi gratuiti non vuol dire mettere delle macchinette che li dispensano, ma attuare un programma di promozione della procreazione responsabile che mira a rendere i singoli e le coppie consapevoli della propria salute”, dice Michele Grandolfo. “Un programma che andrebbe perseguito in diverse sedi: nello studio del medico di famiglia, nei consultori e anche nelle scuole, rivolto ai giovanissimi. Educare alla consapevolezza e all'autonomia nel settore della sessualità vuol dire aiutare i giovani a sviluppare un senso del sé equilibrato, a gestire con responsabilità la propria salute per tutta la vita”.
Finora in Italia rispetto all'educazione sessuale dei giovanissimi si è adottato l'approccio della “security through obscurity”, la “sicurezza attraverso la segretezza”, basato sul principio che tenere nascoste le informazioni sul funzionamento di un sistema lo rende inaccessibile. È un approccio notoriamente fallimentare.
“Negli Stati Uniti di Bush si tentò di incentivare i giovani ad arrivare vergini al matrimonio con l'esperimento degli anelli della verginità”, ricorda Elisabetta Canitano. “Risultato: i giovani che portavano l'anello della verginità avevano i primi rapporti sessuali alla stessa età degli altri, ma adottando meno precauzioni. L'offerta gratuita dei mezzi contraccettivi serve anche a insegnare la prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale”.

Con questa iniziativa arricchite le aziende farmaceutiche e i fabbricanti di dispositivi, per fornire ai cittadini dei prodotti che hanno effetti collaterali dannosi per la salute!


“I contraccettivi di cui chiediamo la rimborsabilità sono proprio quelli che comportano i minori rischi di effetti collaterali”, risponde Marina Toschi. “Noi valutiamo i rischi e cerchiamo di minimizzarli. I più ampi studi inglesi fatti da medici di famiglia, e non dalle case farmaceutiche, dimostrano che tra le donne che hanno utilizzato estroprogestinici per più di 20 anni si registrano tassi inferiori di mortalità per tumore dell'utero, delle ovaie e dell'intestino. Una gravidanza indesiderata è un peso notevole per la salute fisica e psicologica di una donna e di una coppia. Non è vero, poi, che la nostra iniziativa frutterebbe maggiori guadagni alle aziende, perché queste sarebbero costrette a calmierare i prezzi nella contrattazione con l'AIFA per gli acquisti su larga scala”.

È un'iniziativa femminista. Io sono un uomo e non mi interessa.


“Donne e uomini fanno l'amore insieme”, risponde Elisabetta Canitano. “Proteggersi dalle malattie e programmare i figli è interesse comune”.





Qui si parla di diritti sessuali, ma non esiste il diritto al sesso. Infatti c'è chi vorrebbe farlo e non trova nessuno interessato…


“Naturalmente ognuno decide della propria attività sessuale, se averla o non averla. In questo senso non esiste un diritto alla sessualità”, risponde Roberta Rossi, psicologa e psicoterapeuta e presidente dell'Istituto di Sessuologia Clinica di Roma, “ma esiste un diritto alla sessualità consapevole e informata, all'interno del quale rientra la possibilità per tutti di avere accesso ai servizi per la salute riproduttiva, che offrano la scelta più vasta possibile di metodi anticoncezionali efficaci e sicuri e che siano a loro volta accessibili, convenienti e graditi agli utenti. Come ottenere il miglior standard possibile di salute sessuale per tutti senza gli strumenti di prevenzione di base, cioè i contraccettivi?”



mercoledì 6 dicembre 2017

Contraccezione: un diritto negato

“Mi chiamo Giovanna, ho 29 anni e vivo in provincia di Verona. Dopo aver fatto due figlie in due anni, vorrei mettere la spirale, ma non riesco a sostenerne il costo. Anche i 15-20 euro al mese della pillola per me sono un problema. Onestamente, non sono chissà che caso eclatante: sia io che mio marito lavoriamo, ma il mio bilancio mensile fatto di mutuo, nido, rata della macchina, spesa e bollette non mi lascia molto scegliere!”
Giovanna (non è il vero nome), mi avverte che la sua “non è una storia lacrimevole” e quindi forse non è materiale adatto per il post che voglio scrivere. Le rispondo che non sto cercando storie lacrimevoli, ma l'esperienza vera, quotidiana, di tanta gente che arriva a fatica a fine mese e si trova costretta a scegliere tra le spese necessarie e a rinunciare alla contraccezione.

L'articolo 32 della nostra Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. La legge istitutiva dei consultori, la 405 del 29 luglio 1975, cita tra gli scopi dell'assistenza alla famiglia e alla maternità “la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell'integrità fisica degli utenti” e la legge 194 del 22 maggio 1978 ribadisce “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile”.
Nel 2017 non potrebbe essere diversamente: il diritto alla salute sessuale e alla procreazione consapevole e responsabile è fondamentale in qualunque Paese democratico e i vari fertility day e appelli a fare più figli che si susseguono da qualche anno non possono certo prescindere dalla libertà nelle scelte riproduttive. Questo diritto, però, deve essere concretamente attuabile e in Italia oggi non lo è.

Preservativi maschili
“Esistono tanti mezzi contraccettivi differenti, adatti a diverse fasi della vita, a diverse condizioni di salute e alle preferenze personali di ciascuno”, spiega Elisabetta Canitano, ginecologa presso la ASL Roma 3 e presidente di VitadiDonna, associazione del Consorzio della Casa Internazionale delle Donne. “Ci sono quelli meccanici, come il preservativo maschile o femminile, quelli farmacologici, come la pillola, quelli con caratteristiche miste, come la spirale intrauterina medicata. Oggi nel nostro Paese, a parte rare iniziative locali a macchia di leopardo, tutti questi mezzi sono a carico dei cittadini. Nessuno è a carico del Sistema Sanitario Nazionale e dunque gratuito per gli utenti”.

Accesso negato
Preservativi femminili. Proteggono dalle gravidanze indesiderate
e dalle malattie a trasmissione sessuale


Il nostro è un Paese arretrato per quel che concerne la contraccezione. I dati parlano chiaro: al terzo posto tra i metodi scelti dalle donne italiane per evitare gravidanze indesiderate, dopo il preservativo e la pillola, c'è il coito interrotto. “Non lo si può neppure considerare un anticoncezionale, tanto è inefficace”, osserva Marina Toschi, ginecologa consultoriale, membro del Board della European Society for Contraception.
Eppure, in Italia vi fa ricorso il 19,4% delle donne sessualmente attive nella fascia d'età dai 18 ai 49 anni secondo l'indagine multiscopo dell'Istat sulle condizioni di salute e il ricorso ai servizi sanitari del 2013. Il confronto col resto d'Europa è imbarazzante: in Francia nel 2015 ha scelto il coito interrotto come mezzo contraccettivo lo 0,4% delle donne sessualmente attive tra i 15 e i 49 anni, il Germania e in Belgio lo 0,7%, in Austria lo 0,6%, secondo il rapporto delle Nazioni Unite “Trends in Contraceptive Use Worldwide 2015”.
E ancora, un'indagine della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia del 2013 ha evidenziato che il 42% delle ragazze italiane under 25 non utilizza alcuna misura anticoncezionale al primo rapporto sessuale. Il 5% in più rispetto ai risultati di un'analoga inchiesta svolta nel 2010.

Diversi sono i fattori che contribuiscono a questo stato di cose, in primis la cattiva informazione e il retaggio culturale, ma anche l'aspetto economico fa la sua parte.
“Ricordo la visita di una mamma al mio studio. Era venuta a chiedermi la prescrizione di un contraccettivo orale per la figlia. Inizialmente lei era contraria, ma dopo tanto insistere la ragazza l'aveva convinta e aveva ottenuto il suo consenso. Quando ha capito che il farmaco era a pagamento, mi ha spiegato che sarebbe stato complicato poterlo acquistare senza dire niente al marito, cioè al padre della ragazza, che era all'oscuro della faccenda”, racconta Tecla Mastronuzzi, medico di famiglia a Bari. “Presto servizio nel quartiere San Pio, che una volta si chiamava Enziteto, zona di periferia più che degradata, dove l'abbandono scolastico e le prime gravidanze a 20 anni o poco meno sono la regola. Sono tante le giovani che non fanno ricorso ad alcun mezzo contraccettivo. I partner sono contrari, perché convinti che il rischio di una gravidanza indesiderata sia il miglior deterrente contro l'infedeltà. Le donne non hanno autonomia finanziaria e il costo dei contraccettivi diventa un ostacolo insormontabile”. Disagio sociale, ignoranza e ostacoli economici formano una miscela micidiale.
Anello vaginale che rilascia attraverso la mucosa una miscela di ormoni
estroprogestinici. Protegge per un mese dalle gravidanze indesiderate

Le donne, le coppie che non possono permettersi la contraccezione per motivi economici sono quelle più danneggiate se incappano in una gravidanza indesiderata. “Capita. Capita a madri che hanno già quattro o cinque figli e il marito disoccupato”, racconta Anna Fracassi, ostetrica del consultorio AREA di Vestone, convenzionato con la ASL di Brescia. “Ricordo una donna, con una bimba di un anno, che non voleva subito una nuova gravidanza ed è venuta a chiedere la prescrizione per un contraccettivo orale. Cercava quello che costa meno. Alla fine ha optato per un farmaco che si trova in fascia A, cioè rimborsato dal Servizio Sanitario Nazionale ed erogabile dietro pagamento di pochi euro di ticket o gratuitamente a chi ha l'esenzione per reddito. Peccato che non si tratti di un vero contraccettivo. È un anti-androgeno per il trattamento dell'acne: contiene etinilestradiolo e ciproterone, cioè un estrogeno e un progestinico e svolge anche un'azione contraccettiva, ma ha un dosaggio ormonale elevato ed è gravato da effetti indesiderati pesanti. Quella donna non ha avuto scelta e si è dovuta accontentare di una soluzione inadeguata”.

Contraccettivo orale estroprogestinico o progestinico.
Quello progestinico è l'unico che si può assumere in allattamento

Che cosa sono e quanto costano


Diritto alla salute sessuale non vuol dire solo accedere a un qualche mezzo contraccettivo, ma avere la possibilità di scegliere quello più adatto alla propria situazione. “Ci sono donne che possono assumere pillole estro-progestiniche, altre che hanno controindicazioni agli estrogeni e devono far ricorso ai soli progestinici: pillole, spirali medicate, impianti sottocutanei”, spiega Elisabetta Canitano. “Le spirali medicate sono indicate anche come trattamento per le mestruazioni troppo abbondanti. I contraccettivi orali progestinici sono gli unici utilizzabili in allattamento. I preservativi non proteggono solo contro le gravidanze indesiderate, ma anche contro le malattie a trasmissione sessuale”.

Quali sono e quanto costano i mezzi contraccettivi disponibili oggi in Italia? Fatta eccezione per la pillola anti-acne usata come anticoncezionale da chi non può permettersi altro, tutti i contraccettivi orali sono farmaci di fascia C, interamente a carico di chi li acquista. “Costano dai 9 ai 15, fino a 18 euro a confezione che dura un mese, a seconda della formulazione e che si tratti di un generico o di un prodotto di marca”, spiega Marina Toschi. “I progestinici vanno dai 9 ai 15 euro al mese”.
I preservativi costano 8-9 euro a confezione da 6 pezzi. “Quelli femminili costano 6 euro a confezione da 3 pezzi”, prosegue Toschi. “Una spirale al rame costa dai 70 ai 100 euro, a cui va aggiunto il ticket della visita dallo specialista ginecologo che la inserisce. Nei consultori la mettiamo gratuitamente, ma il costo del dispositivo è comunque a carico della donna, salvo rare eccezioni in alcune Regioni e alcune ASL. La spirale medicata con progestinico può costare dai 170 a più di 200 euro”. L'impianto sottocutaneo di uno stick di progestinico è la soluzione più costosa: più di 300 euro e il ticket del medico che lo inserisce.
Spirale intrauterina medicata con progestinico.
Protegge per 5 anni dalle gravidanze indesiderate ed è
indicata nel trattamento della metrorragia

Il progetto Choice della Washington University di St. Louis, condotto dal 2007 al 2011 e pubblicato nel 2012 su Obstetrics and Gynecology, ha coinvolto quasi 10 mila giovani nell'area di St. Louis e ha dimostrato che 75 donne su 100, libere di scegliere senza condizionamenti economici, preferiscono far ricorso agli anticoncezionali reversibili di lunga durata: le spirali, efficaci per 5 anni, e gli impianti sottocutanei, efficaci per 3 anni. E ha dimostrato che questi dispositivi, per la facilità d'uso e l'impossibilità di dimenticanze, sono più efficaci della pillola nella prevenzione delle gravidanze indesiderate e degli aborti volontari.
“Lo studio Choice ha avuto un tale impatto negli Stati Uniti da convincere l'amministrazione Obama a obbligare le assicurazioni sanitarie a coprire anche le spese della contraccezione, come garanzia di un diritto civile alla procreazione responsabile, diritto attaccato ora dall'amministrazione Trump”, dice Pietro Puzzi, ginecologo che opera come volontario in alcuni consultori della ASL di Brescia. “In Italia gli anticoncezionali di lunga durata sono i più costosi”. E non a caso, secondo l'Istat, solo il 4% delle donne Italiane fa ricorso alla spirale, al rame o medicata, e meno dell'1% all'impianto sottocutaneo.

Stick di progestinico per impianto sottocutaneo.
La sua efficacia contraccettiva dura 3 anni
Fino all'estate dello scorso anno, alcuni contraccettivi orali erano collocati in fascia A, tra i farmaci rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale. “Erano estroprogestinici di terza generazione”, spiega Puzzi. “Il 6 luglio del 2016 l'AIFA li ha passati in fascia C senza dare alcuna spiegazione né alle donne, né ai medici. Le donne l'hanno saputo dal farmacista e noi medici dalle donne”.
La motivazione fornita in seguito dall'AIFA è che gli estroprogestinici di terza generazione comportano un piccolo rischio aggiuntivo di tromboembolia rispetto a quelli di seconda generazione, che contengono il progestinico levonorgestrel. “Abbiamo sperato, dunque, che togliere le pillole di terza generazione dalla fascia A fosse il preludio alla rimborsabilità di quelle di seconda generazione, più sicure. Ma fino ad oggi così non è stato”, osserva Puzzi.

Cerotto transdermico che rilascia estroprogestinico
attraverso la pelle.
La sua azione contraccettiva dura una settimana
Per quanto riguarda preservativi maschili e femminili e spirali, non è l'Agenzia del Farmaco che decide sulla loro rimborsabilità perché sono dispositivi e non medicinali. I nuovi Livelli Essenziali di Assistenza, definiti dal DPCM 12 gennaio 2017, prevedono l'erogazione gratuita da parte della ASL al cittadino, dietro prescrizione medica, di alcuni “ausili per la cura e la protezione personale”, tra cui, per esempio, gli assorbenti igienici per l'incontinenza. La lista non comprende alcun contraccettivo.

Marina Toschi lavora in Umbria, nei consultori di Perugia, Magione e Corciano. “Una piccola città piena di stranieri e due paesi”, dice. “Mi vengono in mente le facce di tante donne magrebine, equadoregne, peruviane, che un anno fa chiedevano 'la pillola che non si paga'. Adesso non la chiedono più. Sanno subito quando un diritto viene meno. Non capiscono il perché, ma si adeguano. E poi le facce di quelle che vorrebbero mettere la spirale medicata al progestinico per non avere ogni mese un'emorragia e l'anemia tutto l'anno, ma non si ritrovano 250 euro in tasca per pagarsela...”

La petizione

Qui tolgo il cappello da giornalista e metto quello da attivista. Grazie all'intraprendenza e all'entusiasmo di Pietro Puzzi e Marina Toschi e in collaborazione con la collega giornalista Eleonora Cirant, abbiamo riunito un gruppo di 25 persone, ginecologi, ostetriche, epidemiologi e giornaliste: il Comitato per la contraccezione gratuita e consapevole, nato con l'intento di fare pressione sull'AIFA e il Ministero della Salute perché garantiscano accesso gratuito ai contraccettivi che rientrano nella lista dei farmaci essenziali stilata dall'OMS e aggiornata nel 2017.



Il 6 dicembre abbiamo lanciato una petizione sulla piattaforma Change.org per raccogliere adesioni da consegnare a Mario Melazzini, Direttore Generale dell'AIFA e a Beatrice Lorenzin, Ministra della Sanità. “Chiediamo a tutta la società civile, cittadine e cittadini, di far sentire la propria voce firmando il nostro appello”, conclude Marina Toschi.


sabato 11 novembre 2017

Predestinate? Il percorso, la consapevolezza e la vita quotidiana delle donne portatrici di una mutazione BRCA

Oscure maledizioni familiari, predestinazione, il progresso della conoscenza che getta luce dove prima c'era il buio, senza però affrancare gli individui dalla necessità di fare scelte anche molto difficili. E poi la politica sanitaria, l'impegno, gli ostacoli pratici e burocratici, i pregiudizi. Sono gli ingredienti di una storia fatta di tante vicende personali, alcune tragiche, altre piene di speranza: la storia delle donne portatrici di mutazioni dei geni BRCA1 e 2 che predispongono al cancro al seno e all'ovaio.


(fonte: Wikimedia Commons)
La maggior parte del pubblico italiano è venuto a conoscenza per la prima volta delle mutazioni BRCA il 14 maggio 2013, quando l'attrice americana Angelina Jolie annunciò al mondo con una lettera al New York Times di essersi fatta asportare entrambe le mammelle per abbattere il rischio di sviluppare un cancro come quello che aveva ucciso in giovane età sua nonna e sua madre e che di lì a poco avrebbe ucciso sua zia.


Effetto Jolie


Le reazioni dei lettori sui siti dei giornali italiani che rilanciarono l'annuncio della Jolie erano quasi tutte critiche. “La vita è fatta di rischi che dobbiamo accettare”. “È folle rinunciare a un organo sano per prevenire una malattia”. “È solo una mossa pubblicitaria per attirare l'attenzione”. Liquidavano la scelta dell'attrice come il capriccio di una star danarosa che si illudeva di eludere il destino e comprare la salute con un costoso intervento.
Chi commentava in questo modo evidentemente non si rendeva conto che il rischio di sviluppare un tumore al seno per Angelina Jolie era ben più elevato di quello che corre una donna qualunque durante la sua esistenza, che è del 12% negli Stati Uniti, del 10% in Italia. La Jolie è portatrice di una mutazione, più esattamente di una variante patogena del gene BRCA1 che comporta l'87% di probabilità di avere un cancro al seno e il 50% di probabilità di averlo alle ovaie entro i 70 anni di età.

Il gene BRCA1 sul cromosoma 17 e il BRCA2 sul cromosoma 13
BRCA sta per BReast Cancer. Due sono i geni che portano questo nome, il BRCA1 e il BRCA2 che svolgono la funzione di riparare i danni prodotti accidentalmente al DNA delle cellule da contaminanti ambientali, sostanze contenute nel fumo di sigaretta, radiazioni e innumerevoli altri agenti chimici e fisici. Se uno dei due è difettoso e non può svolgere correttamente il suo compito, aumenta la probabilità che un danno casuale al DNA, non corretto, inneschi una degenerazione tumorale.

“Esistono migliaia di varianti di BRCA1 e 2”, spiega Maurizio Genuardi, direttore dell'Istituto di Medicina Genomica dell'Università Cattolica di Roma e presidente della Società Italiana di Genetica Umana. “Molte sono non patogene: non arrecano alcun danno al funzionamento dei geni. Altre lo alterano in modo più o meno grave. Ciascuna di loro è associata a una diversa entità di rischio di cancro al seno e all'ovaio. A tutt'oggi, però, le nostre conoscenze al riguardo sono ancora limitate e non siamo in grado di calcolare con esattezza il rischio correlato a ogni variante. Possiamo dire che, a seconda del gene e della variante coinvolta, la probabilità per la portatrice di sviluppare un cancro al seno entro i 70 anni va dal 50 all'87%, per l'ovaio va dal 17 al 50%. Più della metà delle donne con variante patogena di BRCA1 si ammala prima dei 50 anni. Frequenti sono le forme tumorali particolarmente aggressive e resistenti al trattamento farmacologico”.

Sono cifre, dati astratti, per un lettore che non sia personalmente coinvolto. Per una donna mutata assumono la concretezza di una maledizione familiare, perché le varianti patogene sono ereditarie dominanti: ogni portatore o portatrice ha il 50% di probabilità di trasmettere la predisposizione al cancro ai propri figli. Spesso la storia familiare di queste persone è un susseguirsi di lutti, di perdite precoci, di devastanti esperienze di malattia.
Il meccanismo di trasmissione delle varianti patogene di BRCA1 e 2:
è sufficiente possedere una copia mutata del gene per avere
la predisposizione, dunque se uno dei due genitori è portatore,
ciascun figlio o figlia ha il 50% di probabilità di ereditare
la variante patogena del genitore e la predisposizione
(grafica: Wikimedia Commons)

“I rumori di casa, gli sguardi gonfi, le cure e la processione delle cartelle cliniche. La mappa mistica della malattia, le credenze superstiziose che si mescolavano alle diagnosi e alle prognosi allora ancora incerte sul cancro”, scrive Silvia Mari, portatrice di una variante patogena del gene BRCA2, la seconda donna in Italia a sottoporsi a mastectomia preventiva, lo stesso intervento di Angelina Jolie. Silvia ha raccontato la sua storia in un libro autobiografico, “Il Rischio”, pubblicato dall'Associazione Fontes nel 2010 e scaricabile gratuitamente qui. “Ricordo i discorsi sulla teoria della maledizione lanciata da mio nonno materno, le ipotesi sul sangue avariato dall'emigrazione e dalla povertà che avrebbe trasferito il male come un'infezione contagiosa da corpo a corpo, da madri a figlie. Le gravidanze e le nascite che diventavano sempre il sigillo di un anatema”.


Persone come Silvia Mari imparano fin da piccole che si ammaleranno e moriranno giovani come le proprie nonne, mamme, zie, che non possono fare progetti a lunga scadenza, che non vedranno crescere i propri figli.

Il test


A spezzare l'oscurità della maledizione c'è il test genetico, disponibile in Italia dalla fine degli anni '90. Si effettua su un campione di tessuto tumorale della donna già ammalata, oppure su un campione di sangue. “La mutazione patogena può non essere ereditata, ma insorgere casualmente nelle cellule della ghiandola mammaria, innescando un tumore”, spiega Genuardi. “Saperlo è importante, perché la conoscenza della specifica variante può dare indicazioni sulla scelta della terapia farmacologica più efficace. Per questo motivo oggi si sottopone la donna ammalata ad analisi genetica di un campione del tessuto tumorale, alla ricerca di una qualsiasi variante patogena di BRCA1 o 2. Si parla in questo caso di test diagnostico. Identificata la mutazione, oltre a impostare la terapia del caso si ripete l'esame sul sangue. Se la stessa variante è presente nel DNA del sangue, vuol dire che la mutazione è ereditaria. Si prospetta allora la possibilità di cercare la variante già identificata nelle altre persone della famiglia che potrebbero averla ereditata. In questo caso si parla di test predittivo”.

Il test se la donna è già ammalata (grafica: Monica Gewurz)

C'è poi l'eventualità di una donna sana che ha una storia familiare di tumori al seno e alle ovaie insorti in giovane età, particolarmente aggressivi. I precedenti fanno pensare che nella sua famiglia possa ricorrere una variante patogena di un gene BRCA, ma non sono disponibili parenti ammalate da sottoporre al test, perché già decedute o perché non danno il loro consenso. “In tal caso, la donna sana con precedenti familiari fortemente sospetti viene avviata al colloquio con un genetista e a visita senologica e, se il sospetto è confermato, le si offre di sottoporsi al test”, spiega Genuardi. “Poiché non è stata identificata in precedenza una specifica variante che ricorre nella sua famiglia, i suoi geni BRCA 1 e 2 verranno analizzati alla ricerca di qualunque mutazione patogena”.

Il test se la donna è sana (grafica: Monica Gewurz)

Ma perché limitarsi alle donne già ammalate e alle famiglie con ricorrenza di tumori? Perché non sottoporre tutta la popolazione al test BRCA? “Perché può accadere che una variante patogena ricorra in una famiglia senza essere associata a una frequenza anomala di tumori del seno o delle ovaie”, risponde il genetista. “Ce ne accorgiamo sempre più spesso quando una donna si sottopone a sequenziamento completo del DNA per ragioni diverse dalla ricerca di mutazioni BRCA. Non è ammalata, non ha precedenti familiari e scopre casualmente di essere portatrice di una variante patogena di BRCA1 o 2. Vuol dire che il rischio teorico rappresentato dalla presenza della mutazione non sempre si concretizza, probabilmente a causa dell'interazione con altri geni o a causa di fattori ambientali. Dal momento che ne sappiamo ancora poco, però, una volta scoperta la variante patogena dobbiamo considerare quella donna come una persona ad alto rischio. Le raccomanderemo controlli serrati e le prospetteremo un intervento di chirurgia preventiva. Ecco perché non è consigliabile allargare il test a persone sane e senza precedenti familiari”.

Chi si sottopone all'esame deve mettere in conto anche la possibilità di un esito incerto. “Questo è un campo di studio in continua evoluzione”, spiega Genuardi. “Vengono scoperte progressivamente nuove varianti patogene e non patogene e su alcune non abbiamo abbastanza dati per dare un'interpretazione chiara. Ecco perché il test deve essere sempre preceduto e seguito da una consulenza fatta da un genetista oncologo, che possa fornire alla diretta interessata informazioni corrette e spiegarle il significato e i limiti del referto”.

La forza della consapevolezza


Avere il responso positivo del test per me è stato liberatorio, la vittoria della ragione sulla superstizione. Può sembrare paradossale, ma è così”, dice Silvia Mari. “La mia situazione familiare era molto pesante e io la vivevo come un accanimento vessatorio del destino, di fronte a cui ero passiva e indifesa. Conoscere il perché di quella serie di lutti e sofferenze mi ha alleggerito, mi ha dato la forza di prendere la vita nelle mani. Le donne come me sono nate con una terribile ipoteca e se non fanno nulla, se rimangono passive, muoiono. È un incentivo formidabile che ci spinge ad essere consapevoli, determinate”.

Per aiutare le persone che portano questo fardello ad acquisire le informazioni più aggiornate sulla loro condizione, sugli sviluppi della ricerca, sulle opzioni disponibili e i percorsi di assistenza attivati nel nostro Paese, due anni fa è nata aBRCAdaBRA Onlus, un'associazione che riunisce donne e uomini portatori di mutazione BRCA, loro familiari, professionisti della salute e chiunque ne condivida gli scopi, fondata sotto l'egida del movimento Europa Donna Italia per i diritti delle donne nella prevenzione e cura del tumore al seno. “Ad oggi abbiamo un migliaio di soci”, spiega Ornella Campanella, fondatrice e presidente di aBRCAdaBRA. “Siamo informati e ci facciamo portatori di informazioni nelle nostre famiglie, ci adoperiamo per diffonderle nella società e per sensibilizzare i medici e le istituzioni sulle esigenze delle persone ad alto rischio. Partecipiamo a congressi e attività sul territorio, facciamo advocacy. In collaborazione con ACTO Onlus, Alleanza Contro il Tumore Ovarico, abbiamo lanciato su Youtube la campagna 'Io scelgo di sapere', con contributi video di pazienti e di esperti”.



È un campo, questo, in cui la conoscenza può fare la differenza tra la vita e la morte. “La vicenda di Angelina Jolie è servita a far parlare di rischio ereditario, di mutazioni BRCA, di chirurgia preventiva”, dice Alberta Ferrari, oncologa senologa dell'Unità Senologica del Policlinico San Matteo di Pavia e cofondatrice dell'associazione. “Ma ancora sono tante le donne non informate, sono tante quelle che muoiono per ignoranza. Sicuramente ci sono morti inevitabili, anche quando si fa il possibile, ma tante morti e malattie sarebbero evitabili se potessimo intercettare per tempo tutte le donne a rischio e metterle in sicurezza”.



C'è anche chi, trovandosi in una condizione di sospetto rischio ereditario, sceglie di non fare il test, di non sapere, e c'è chi lo fa e reagisce al responso positivo con fatalismo. “Sono scelte personali che dipendono dall'età, dalla storia, dai precedenti familiari”, osserva Campanella. “75 donne su 100 nella nostra associazione si sono sottoposte al test quando erano già ammalate. Nella loro situazione, conoscere il perché della malattia può essere di sollievo e aiuta nella scelta della terapia più adatta e nella gestione del rischio di future recidive. L'aver subito tanti lutti durante la vita può spingere al fatalismo, oppure all'autodeterminazione, alla volontà di sfuggire al destino. La maggior parte delle donne che ricevono un responso positivo sono giovani, sotto i 40 anni, in piena attività lavorativa, con figli piccoli o progetti di maternità. La prospettiva di non veder crescere i propri figli spinge molte sulla via della chirurgia preventiva, a volte subito e a volte dopo un periodo più o meno lungo di riflessione”.

Maria Grilli, socia di aBRCAdaBRA, è diventata un'esperta della sua condizione di portatrice di una variante patogena di BRCA1, ma solo di recente. “Si può dire che ho capito appieno che cosa significa solo nel 2015, nove anni dopo la diagnosi del mio primo tumore alla mammella destra”, racconta. “Mi asportarono parte del seno, mi sottoposero a chemio e radio e solo due anni dopo la senologa mi comunicò che era opportuno fare il test per la ricerca delle mutazioni. Il responso era positivo, ma nessuno mi spiegò chiaramente che cosa voleva dire, che stavo volando su un aereo che aveva l'87% di probabilità di precipitare, che il fatto di essermi ammalata una volta non riduceva il rischio di sviluppare altri tumori, come infatti accadde poco dopo, alla mammella sinistra. E poi di nuovo una terza volta. Nel 2015, informandomi e studiando, ho capito la situazione e ho ottenuto di farmi asportare la porzione residua di seno. Ora sto meglio, ma non posso ancora dire di esserne uscita. Quello che posso dire e che ripeto a tutte le donne con cui vengo in contatto attraverso la nostra associazione è che la conoscenza ti salva la vita ed è determinante affidarsi a un medico bene informato”.

Le vie disponibili


In che misura l'adozione di uno stile di vita sano e il controllo dei fattori di rischio ambientali può aiutare le portatrici di una variante patogena di BRCA?
“Non lo sappiamo”, risponde Alberta Ferrari. “Sicuramente i fattori ambientali giocano un ruolo nel rischio di cancro al seno e alle ovaie non solo per la popolazione generale, ma anche per le donne mutate. Un esempio per dimostrarlo: l'incidenza del cancro al seno in Polonia è inferiore a quella negli Stati Uniti. Anche le donne polacche con BRCA mutato corrono un rischio inferiore rispetto alle donne statunitensi con BRCA mutato. Se una donna polacca si trasferisce negli USA, il suo rischio aumenta e si allinea a quello statunitense. È la prova che alimentazione, stile di vita e fattori ambientali hanno un ruolo significativo nell'insorgenza del tumore al seno. Purtroppo, non sappiamo con certezza quali siano questi fattori e quanto pesi il loro contributo. La ricerca se ne sta occupando: è in corso uno studio dell'Istituto Italiano Tumori sull'alimentazione delle donne ad alto rischio. Si sta indagando anche sui cosiddetti interferenti endocrini, contaminanti ambientali che si legano ai recettori degli ormoni estrogeni della ghiandola mammaria, alterando l'assetto ormonale. Possono agire già in utero, sullo sviluppo del tessuto ghiandolare del feto, predisponendolo allo sviluppo di un tumore nel corso della vita”.

Lavorare sui fattori ambientali per prevenire la malattia nelle donne BRCA mutate, dunque, non è sufficiente. La medicina oggi offre due strade a chi si trova in questa situazione. La prima è quella dei controlli strumentali assidui, per diagnosticare tempestivamente l'eventuale insorgenza di un tumore e trattarlo quando le probabilità di guarigione sono più elevate. La seconda è la via della chirurgia preventiva: rimuovere gli organi bersaglio, ghiandole mammarie, ovaie e tube, prima che la malattia insorga. Ciascuna di queste due scelte ha i suoi pro e contro.

(fonte: Wikimedia Commons)
“Poiché le donne mutate tendono a sviluppare tumori in giovane età, i controlli per loro devono iniziare in anticipo rispetto alla popolazione generale”, spiega la senologa. “E poiché i loro tumori tendono ad essere più aggressivi, i controlli devono essere serrati, per non dare il tempo di crescere a quelli che si sviluppano tra un esame e l'altro. In Italia non abbiamo linee guida nazionali per la gestione dell'alto rischio. Quelle degli altri Paesi, che a grandi linee concordano, prevedono il ricorso alla risonanza magnetica una volta all'anno, o più frequentemente, dai 25 ai 55-60 anni. In aggiunta, prevedono una mammografia all'anno a partire dai 35 anni in poi. Non sono concordi sull'utilità dell'ecografia. Per quanto riguarda la diagnosi del tumore ovarico, c'è l'ecografia transvaginale e il dosaggio nel sangue della proteina CA125. Va detto però che raramente si riesce a identificare precocemente un tumore alle ovaie. Quando la malattia è visibile all'ecografia spesso è già in fase metastatica. L'utilizzo della pillola contraccettiva estroprogestinica dimezza il rischio di cancro ovarico se assunta almeno per 5 anni consecutivi”.

È importante sapere che un programma di controlli serrati non è una misura preventiva contro il cancro al seno e all'ovaio. Non riduce il rischio di insorgenza, ma la mortalità. L'alternativa, l'unica misura ad oggi realmente preventiva che abbatte il rischio di ammalarsi, è la rimozione chirurgica degli organi.

L'intervento di rimozione delle ovaie comporta l'avvio della menopausa”, spiega Alberta Ferrari, “e una menopausa precoce riduce l'aspettativa di vita e peggiora la qualità della vita: favorisce l'instaurarsi dell'osteoporosi, un aumento del rischio cardiovascolare e di numerosi altri disturbi. Per questa ragione si cerca di posticipare più possibile l'intervento, compatibilmente con l'entità del rischio associato alla mutazione e la volontà della diretta interessata. Se la percentuale di rischio è molto elevata, i benefici di una rimozione precoce sono superiori ai costi per la salute, come nel caso di Angelina Jolie, che infatti nel 2015 ha annunciato di aver tolto anche le ovaie. Alle più giovani ad alto rischio si può proporre un compromesso: rimuovere inizialmente solo le tube, lasciando per qualche anno ancora le ovaie. La maggior parte dei tumori ovarici, infatti, ha origine dal tessuto epiteliale delle tube e in questo modo si può prendere tempo e rimandare l'induzione della menopausa. In caso di rimozione delle ovaie a una donna che non ha ancora portato a termine il suo progetto riproduttivo, la fertilità può essere preservata congelando gli ovociti per un uso successivo con fecondazione assistita”.

(fonte: Wikimedia Commons)
L'intervento al seno non comporta conseguenze altrettanto negative per la salute, a parte il rischio di complicanze proprio della chirurgia. Si tratta, però, di un'operazione complessa, che prevede la rimozione della ghiandola mammaria preservando la pelle e il capezzolo e la ricostruzione del volume del seno con l'inserimento di protesi in silicone. “Non azzera il rischio, perché qualche cellula della ghiandola può sfuggire e dare origine a un tumore”, avverte Ferrari, “ma lo abbassa al 6%, sotto la soglia del rischio per la popolazione generale, che è del 10-12%”.

Quante sono le donne che hanno fatto questa scelta in Italia? “Non lo sappiamo, perché non esiste un registro nazionale dedicato”, risponde la senologa. “Di certo le donne ad alto rischio che vorrebbero sottoporsi a mastectomia preventiva sono più numerose di quelle che ci riescono, perché ancora oggi, nonostante l'evidenza scientifica dei vantaggi dell'intervento in termini di riduzione della mortalità, tanti medici lo sconsigliano o addirittura lo rifiutano. Nel 2008, la trasmissione Le Invasioni Barbariche di Daria Bignardi ospitò Anna Gazziero, la prima donna italiana che si era sottoposta alla rimozione, sette anni prima di Angelina Jolie, e Umberto Veronesi, il padre dell'oncologia italiana. Veronesi affermò che l'intervento era una soluzione di comodo, una scelta esagerata fatta per noia dei controlli periodici, per sedare un'ansia patologica. Quella sua dichiarazione ha influenzato e influenza tuttora tanti specialisti, nonostante in seguito lo stesso Veronesi si sia ricreduto, approvando le scelte di Angelina Jolie nel 2013 e nel 2015”.



“Ho visto anch'io quel video, diversi anni dopo la sua messa in onda e il mio intervento di mastectomia preventiva”, dice Silvia Mari. “Veronesi era assolutamente convinto di quel che diceva: lui era il paladino della chirurgia conservativa. E in effetti per una donna non mutata è un enorme beneficio poter conservare almeno in parte il seno. Per la donna portatrice di mutazioni BRCA non è così e le evidenze hanno smentito quel che Veronesi affermava. Sono ottimista: a distanza di quasi dieci anni, le conoscenze sono aumentate e si diffondono progressivamente tra i medici e tra la gente. Dobbiamo impegnarci perché si diffondano sempre più e per proteggere il servizio sanitario pubblico. Nonostante tutte le sue pecche, in Italia la sanità pubblica permette anche a una donna senza i mezzi economici della Jolie di affrontare un intervento complesso e costoso come quello che  mi ha restituito la vita”.

Un percorso a ostacoli


Come dice Silvia Mari, le conoscenze si diffondono e l'assistenza alle portatrici di alto rischio ereditario sul territorio nazionale migliora, grazie anche all'impegno di associazioni come aBRCAdaBRA e di professionisti come Carlo Naldoni, oncologo e specialista di igiene e medicina preventiva, tra i fondatori dell'Osservatorio Nazionale Screening, ex presidente del Gruppo Italiano Screening Mammografico e per 24 anni responsabile dei programmi di screening della Regione Emilia Romagna per la prevenzione dei tumori femminili. Proprio la Regione Emilia Romagna è stata la prima, nel 2012, ad attivare un percorso totalmente gratuito per l'identificazione delle donne con sospetto rischio ereditario per il tumore al seno e alle ovaie e la loro presa in carico, che comprende l'offerta del test genetico, degli esami di approfondimento, dei controlli periodici, di counselling multidisciplinare e della chirurgia preventiva.

Le statistiche sulla frequenza delle mutazioni BRCA nella popolazione italiana e sui casi di carcinoma mammario legato a mutazioni BRCA. Carlo Naldoni spiega che si tratta, per il momento, solo di stime, in attesa che le i dati sul rischio ereditario vengano inclusi nel Registro Nazionale Tumori 


“Abbiamo creato una rete tra le strutture attive sul territorio”, spiega Naldoni. “Alle estremità di questo sistema stanno i medici di medicina generale, gli specialisti senologi e i centri che amministrano lo screening mammografico offerto dal servizio sanitario pubblico. Queste tre entità hanno il compito di intercettare le donne con sospetto rischio ereditario, sottoponendo alle loro assistite un questionario per raccogliere dati relativi alla storia personale e familiare. A ogni evento descritto nel questionario, per esempio una parente di primo grado che ha sviluppato un tumore al seno in giovane età, viene attribuito un punteggio che contribuisce alla stima del rischio. Se il rischio calcolato in questo modo è superiore a una determinata soglia, la donna viene indirizzata a un centro di senologia, per una visita specialistica e una ricostruzione più accurata dell'albero genealogico e dei precedenti familiari. Il passo successivo è il colloquio con un genetista oncologo e l'offerta di sottoporsi al test. Qualora il responso fosse positivo, la donna viene presa in carico da una squadra multidisciplinare, con il contributo del genetista, dell'oncologo, del senologo e del ginecologo, del chirurgo plastico e dello psicologo. Le vengono prospettate le diverse possibilità: un programma di controlli serrati oppure la chirurgia preventiva, secondo tempi e modi differenti da persona a persona. L'ultima scelta spetta sempre e comunque alla diretta interessata. Esami, farmaci, visite specialistiche e interventi sono tutti a carico del servizio sanitario pubblico”.

Il Piano Nazionale Prevenzione 2014-2018 prevede la creazione di reti analoghe in tutte le Regioni entro l'anno prossimo, ma per il momento solo la Liguria sta seguendo le orme dell'Emilia Romagna. In Veneto è in corso un censimento delle strutture senologiche. “Nelle altre Regioni, soprattutto quelle del Sud, l'offerta del test e l'assistenza delle donne ad alto rischio è disorganizzata, a macchia di leopardo”, dice Alberta Ferrari.

Nel 2014 la Società Italiana di Genetica Umana e l'Associazione Italiana di Oncologia Medica hanno pubblicato un documento di indirizzo sui criteri per identificare le persone sane a cui offrire il test genetico. Tra i parametri di cui tenere conto per consigliare l'esame c'è l'insorgenza tra i parenti di primo grado di tumori al seno e alle ovaie in età precoce, tumori multipli, bilaterali, particolarmente aggressivi, tumori alla ghiandola mammaria maschili. Al momento in Italia questi criteri non vengono applicati in modo uniforme, anche perché non è uniforme la distribuzione delle strutture pubbliche che offrono il test. “La SIGU e l'AIOM stanno realizzando un censimento dei centri di qualità”, dice Maurizio Genuardi. “Sappiamo che nel pubblico sono pochi, totalmente assenti in alcune Regioni, e per questo hanno lunghe liste d'attesa. Al contrario, si sono moltiplicati i centri privati, che però non sempre garantiscono la qualità e spesso si limitano a consegnare il responso senza offrire la consulenza di un genetista preparato che ne spieghi il significato alla diretta interessata”.



L'importanza di fare rete con altre persone che vivono la medesima condizione di rischio: Maria Grilli ha incontrato specialisti che non hanno saputo informarla adeguatamente sull'alto rischio ereditario di cancro al seno e alle ovaie, per poi trovare finalmente le conoscenze che cercava attraverso i social media, mettendosi in contatto con l'associazione aBRCAdaBRA.


Anche l'accesso alla chirurgia preventiva oggi nel nostro Paese è eterogeneo e soggetto al giudizio del singolo specialista. Solo negli ultimi giorni l'Associazione Nazionale Italiana Senologi Chirurghi, con il contributo di aBRCAdaBRA e di Europa Donna Italia, ha pubblicato un documento per fare chiarezza sull'argomento e dare utili indicazioni ai medici e alle strutture sanitarie.
Vi si legge che il team multidisciplinare che ha preso in carico la donna ad alto rischio ereditario deve informarla in modo esaustivo e non dirigerla, lasciandola libera di “optare per le scelte che considera più opportune per sé in un preciso momento della sua vita”.
Vi si legge inoltre: “attualmente si ritiene che la chirurgia profilattica della mammella e della tuba/ovaio rappresentino l'intervento più efficace di riduzione del rischio di sviluppare un cancro della mammella e un cancro dell'ovaio”. Il documento elenca le indicazioni per la chirurgia profilattica, i dati disponibili sulla riduzione del rischio in funzione del gene mutato e dell'età della donna e prende in considerazione diversi casi: la portatrice di variante patogena già ammalata, la portatrice ancora sana, la donna negativa al test ma con una grave familiarità per il cancro al seno.

Il 17 settembre scorso, l'Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna, insieme a società scientifiche e associazioni di advocacy come aBRCAdaBRA, ha presentato un documento per chiedere alle autorità sanitarie nazionali e regionali l'implementazione di un percorso di prevenzione e cura del tumore ereditario della mammella e dell'ovaio.
“Chiediamo anche l'istituzione di un registro nazionale delle persone con mutazione BRCA e di chi si sottopone a chirurgia profilattica, linee guida nazionali, un sistema di accreditamento dei centri che offrono il test genetico, esenzione dal ticket per i controlli periodici e gli esami di approfondimento”, aggiunge Campanella.

Oltre alle autorità sanitarie, bisognerebbe sensibilizzare anche la gente comune sulla condizione e le esigenze delle donne con alto rischio ereditario, che siano già ammalate o sane. “Hanno la necessità di sottoporsi a controlli frequenti, affrontano interventi impegnativi benché siano donne sane e abbiano l'aspetto di donne sane: spesso riesce difficile per gli altri empatizzare con loro, con le loro difficoltà”, dice Maria Grilli. “Sul lavoro i colleghi talvolta le criticano per le assenze o perché non possono svolgere alcune mansioni, come se il loro fosse un capriccio. È un problema anche per tante donne ammalate ma che non lo danno a vedere. Io, per esempio, non posso sollevare pesi, non posso alzare completamente un braccio, ho una ferita che periodicamente si riapre, soffro di osteoporosi e altri disturbi a causa della menopausa precoce, però mi sono ricresciuti i capelli, non sono pallida ed emaciata, quindi sembro sana. È difficile far capire la questione a chi ci circonda”.

(fonte: Wikimedia Commons)
La maternità


Infine, c'è la questione della maternità. Le donne ad alto rischio ereditario che non escludono l'eventualità di avere dei figli devono affrontare scelte delicate. Anni fa, quando si cominciava a parlare di mutazioni BRCA, la rimozione delle ovaie era consigliata solo a chi aveva portato a termine il proprio progetto riproduttivo. Oggi la crioconservazione degli ovociti è una tecnica consolidata per preservare la fertilità e permette di rimuovere l'organo bersaglio senza sacrificare i progetti di maternità. Tuttavia, si tende ad aspettare comunque il più a lungo possibile, compatibilmente con il rischio, prima di rimuovere le ovaie e indurre la menopausa.

“Quando scoprii di essere portatrice di una mutazione e decisi di togliere il seno, non avevo progetti di maternità, non ero interessata all'idea di avere figli”, racconta Silvia Mari. “Aspettai a togliere le ovaie per evitare una menopausa molto precoce. Me lo potevo permettere perché con una variante patogena del gene BRCA2 eventuali tumori ovarici si manifestano di solito dopo i 40 anni. Avevo tempo. Da allora, alcune cose sono cambiate: ho conosciuto mio marito, ci siamo sposati e ho capito di volere dei figli con lui. Quindici mesi fa è nata la mia bambina. Ora sto cominciando a valutare l'idea di rimuovere le ovaie, magari dopo aver congelato gli ovociti”.

La possibilità di preservare la fertilità con la crioconservazione non viene offerta a tutte le donne che si sottopongono a trattamenti terapeutici o preventivi. “Per scarsa informazione e attenzione degli specialisti che prendono in carico la donna”, dice Alberta Ferrari. “Invece questa opzione dovrebbe far parte del percorso assistenziale standard, in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale”.

C'è poi il rischio di trasmettere la mutazione ai figli e, soprattutto, alle figlie. “Oggi in Italia è legale, per le donne portatrici di varianti patogene dei geni BRCA, sottoporsi a procreazione assistita e chiedere la diagnosi preimpianto e l'impianto dei soli embrioni non portatori della mutazione”, aggiunge Ferrari. “In tante vi ricorrono, per avere la certezza di non trasmettere la predisposizione alla nuova generazione”.
(fonte: Wikimedia Commons)

Silvia Mari aveva considerato questa possibilità. “Ma il concepimento è arrivato spontaneamente prima che avessi il tempo di decidere”, racconta. “Il timore di aver trasmesso la mutazione a mia figlia è con me dall'inizio della gravidanza. Sono fiduciosa nel fatto che da qui a 20-30 anni le armi per difendersi dal rischio ereditario saranno più efficaci e, nell'eventualità che mia figlia fosse mutata avremo modo di affrontare la situazione. Tuttavia, tremo al pensiero di quando lei, cresciuta, mi dirà: tu sapevi che cosa mi stavi passando”.

Maria Grilli ha due figli maschi, ancora minorenni. “Sarei più preoccupata se fossero state femmine”, dice, “ma un aumento del rischio c'è anche per gli uomini. Una mutazione del gene BRCA1 come la mia comporta una probabilità maggiore di insorgenza di tumore alla prostata, al colon e allo stomaco. Una mutazione di BRCA2, invece, nei maschi aumenta il rischio di melanoma, di tumore alla ghiandola mammaria e al pancreas. Quando avranno 18 anni penseremo a fare il test genetico”.

Attualmente l'esame non viene proposto ai minorenni. “In primo luogo per ragioni di privacy e per consentire al diretto interessato di esprimere la sua opinione su una questione così importante e delicata”, dice Maurizio Genuardi. “Inoltre, non è dimostrato alcun vantaggio nel mettere in atto controlli precoci o interventi preventivi prima dei 20 anni di età”.









lunedì 16 ottobre 2017

Fare un figlio col morbo di Crohn o la colite ulcerosa

Qualche settimana fa un'amica su Facebook mi raccontava del suo parto, assistito con particolari cautele perché è affetta da morbo di Crohn. Pochi giorni dopo a Roma sono stata invitata al congresso nazionale della Società Italiana di GastroReumatologia, che riunisce gli esperti di malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI): il morbo di Crohn, appunto, e la colite ulcerosa. Si è parlato in particolare di come vivono l'attesa di un bimbo le donne che soffrono di queste patologie.

Non sono poche oggi in Italia le persone affette da Crohn o colite ulcerosa. Se ne contano circa 200 mila, tre ogni mille abitanti, e tante sono donne in età fertile, perché nella maggioranza dei casi le malattie esordiscono tra i 20 e 40 anni. Con quali prospettive possono affrontare la ricerca di una gravidanza? Che rischi corrono? Quali accortezze devono adottare?

Il morbo di Crohn può colpire qualunque tratto dell'apparato digerente.
Grafica dal sito di Amici Onlus, associazione di persone
 affette da MICI e dei loro familiari (www.amiciitalia.eu)

Infiammazione di origine autoimmune


Quale sia esattamente il meccanismo responsabile delle malattie infiammatorie croniche intestinali non è ancora noto. Sono patologie autoimmuni con una componente di predisposizione familiare. Fattori scatenanti sconosciuti attivano una risposta immunitaria anomala diretta contro la mucosa dell'intestino. A subire l'attacco è qualunque tratto dell'apparato digerente nel morbo di Crohn, solo l'ultimo tratto dell'intestino nella colite ulcerosa.

Entrambe le malattie sono croniche e ricorrenti: periodi di remissione si alternano a periodi in cui l'infiammazione si acutizza e sulla mucosa si formano ulcere, ascessi, stenosi e fistole. Non esiste una terapia definitiva ma farmaci per combattere l'infiammazione nelle fasi acute e prolungare le fasi di remissione. In alcuni casi si ricorre alla chirurgia per riparare i danni oppure rimuovere tratti di intestino danneggiati.

“Oggi abbiamo a disposizione diversi farmaci per il trattamento delle forme più o meno gravi, in fase di remissione o in fase acuta”, spiega Bruno Laganà, presidente della Società Italiana di GastroReumatologia. “Abbiamo anti-infiammatori non steroidei che agiscono in modo specifico sull'intestino, steroidi, immuno-soppressori e i farmaci biologici, disponibili da una ventina d'anni. Sono anticorpi monoclonali, molecole progettate a tavolino per interferire con i meccanismi del processo infiammatorio”.

La colite ulcerosa colpisce l'ultimo tratto dell'intestino.
Grafica tratta dal sito di Amici Onlus

Progettare una gravidanza con le MICI


Il progetto di una gravidanza non è incompatibile con una malattia infiammatoria cronica intestinale, a patto di programmare il concepimento in un periodo di remissione della patologia e avere l'assistenza degli specialisti di riferimento.
“La gravidanza che insorge durante un periodo di remissione della malattia materna non è diversa dalla gravidanza nella popolazione generale per quanto riguarda i rischi e le complicanze ostetriche”, dice Micaela Fredi, immunologa degli Spedali Civili di Brescia. “E il rischio di acutizzazione durante l'attesa è basso. Al contrario, se la gravidanza insorge mentre la malattia è attiva, il rischio di peggioramento per la madre è elevato e lo stato infiammatorio aumenta la probabilità di interruzione spontanea, parto pretermine, ritardo dello sviluppo intrauterino, basso peso alla nascita, ricorso a parto cesareo urgente”.

Per questa ragione è importante che l'aspirante mamma prima di cercare il concepimento consulti lo specialista da cui è in cura e che questo lavori di concerto con il ginecologo che seguirà la gravidanza. “Insieme devono attuare un attento controllo del benessere materno-fetale”, spiega Fredi. “Non c'è modo di prevedere a priori la durata di un periodo di remissione, ma attraverso esami del sangue periodici si possono riscontrare eventuali alterazioni degli indici di infiammazione, come la velocità di sedimentazione delle emazie e la proteina C reattiva, l'insorgenza o il peggioramento dell'anemia, segnali che fanno sospettare precocemente una riaccensione della malattia. Si può impostare di conseguenza una terapia mirata al mantenimento della remissione materna, compatibilmente con il corretto sviluppo del nascituro”.

La sicurezza dei farmaci


Un tempo si raccomandava all'aspirante mamma di assumere i farmaci per il controllo dell'infiammazione fino all'esito positivo del test di gravidanza e poi di sospenderli in via precauzionale, nel timore che potessero indurre delle malformazioni a carico del feto. Così facendo, però, il rischio di riacutizzazione della malattia era elevato. “Oggi i nuovi dati di cui disponiamo ci permettono di autorizzare il proseguimento della terapia con anticorpi monoclonali fino al terzo trimestre o fino alla fine della gravidanza, a seconda del farmaco usato”, dice l'immunologa. “I farmaci biologici sono molecole di grosse dimensioni. Il loro passaggio attraverso la placenta inizia nel secondo trimestre e diventa più efficiente solo nel terzo. Per alcuni di loro il passaggio è ridotto anche nel terzo trimestre. Numerosi studi hanno escluso il rischio malformativo”.

L'assunzione di queste molecole in gravidanza può comportare un abbassamento temporaneo delle difese immunitarie del neonato. “Meglio quindi attendere 18 mesi di vita prima di somministrare al bimbo vaccini che contengono virus vivi attenuati, come il quadrivalente contro morbillo, parotite, rosolia e varicella, che normalmente andrebbe fatto al compimento dell'anno di età”, avverte Giammarco Mocci, gastroenterologo dell'Ospedale Brotzu di Cagliari. “Via libera senza problemi alle altre vaccinazioni previste nel corso del primo anno, che contengono solo microrganismi inattivati o loro frammenti. Dopo i 18 mesi si può somministrare in piena sicurezza anche l'anti-morbillo, parotite, rosolia e varicella”.
Per altri farmaci diversi dagli anticorpi monoclonali non sono disponibili dati sufficienti a consentire l'assunzione in gravidanza.

Parto e dopo parto
Il sito di Amici Onlus
riporta un elenco aggiornato dei centri di
gastroenterologia attivi in Italia


Le modalità del parto, se vaginale o cesareo, dipendono dalla localizzazione della malattia, dalle condizioni della madre e da eventuali indicazioni ostetriche. “Le pazienti con malattie infiammatorie intestinali ricorrono al cesareo più frequentemente rispetto alla popolazione generale”, osserva Micaela Fredi. “L'intervento può essere necessario se la patologia intestinale è associata a spondiloartrite, una malattia reumatica della colonna vertebrale, cosa che talvolta accade. La spondiloartrite può rendere meccanicamente difficoltoso il parto per via vaginale”.

Nato il bimbo, le condizioni della neomamma devono essere seguite con attenzione, perché il puerperio è un periodo a maggior rischio di riaccensione della malattia. “Si ritiene che la variazione dei livelli ormonali dopo la gravidanza possa portare a una riattivazione del sistema immunitario per i successivi 6 mesi. I meccanismi sono molteplici e non tutti ben chiariti”, dice Fredi. “Sono necessari, quindi, frequenti controlli clinici ed esami del sangue. Scegliendo i farmaci giusti, la terapia con anticorpi monoclonali è compatibile con l'allattamento, perché la concentrazione delle molecole nel latte materno è bassa”.
https://amiciitalia.eu/index.php/centri-gastroenterologia/centri


martedì 3 ottobre 2017

Tumore al seno: controllarsi non vuol dire fare esami a caso



È appena iniziato il mese di ottobre, tradizionalmente dedicato alla prevenzione del tumore al seno. Si moltiplicano le iniziative per sensibilizzare le donne sull'utilità di fare controlli periodici per diagnosticare tempestivamente un'eventuale neoplasia.
Tra postazioni mobili, stand nelle piazze e porte aperte negli ambulatori diagnostici si rischia, però, di passare il messaggio sbagliato, cioè che più esami si fanno, a qualunque età, e meglio è.



Le cifre del rischio


L'Associazione Italiana Registri Tumori ha appena pubblicato l'ultima edizione del suo rapporto annuale sui numeri del cancro in Italia. Il carcinoma alla mammella è la neoplasia più frequente tra le donne: gli autori stimano che nel 2017 ne verranno diagnosticati circa 50.500 nuovi casi, quasi uno ogni 10 minuti. Colpisce una donna su 42 nella fascia d'età da 0 a 49 anni, una donna su 18 tra 50 e 69 anni, una donna su 21 tra 70 e 84 anni. Negli ultimi anni l'incidenza tende ad un leggero aumento, ma la mortalità sta calando sensibilmente, del 2,2% all'anno.





Il merito, secondo il rapporto, è dei programmi pubblici di screening che favoriscono la diagnosi precoce. Oggi il 25% dei tumori viene diagnosticato quando ha dimensioni inferiori a 2 cm. A queste condizioni, il trattamento porta a guarigione nel 90% dei casi.

Gli esami giusti al momento giusto


Gli inviti a sottoporsi a controlli periodici sono sacrosanti. Invece l'offerta a pioggia di esami nel corso delle tante iniziative promosse in questi giorni può generare confusione. È possibile che una donna decida di sottoporsi a una mammografia perché persuasa dall'invito dei volontari su una piazza e così facendo scopra di avere un tumore aggressivo allo stadio iniziale. Trattandolo tempestivamente, si salva la vita.

È anche possibile, però, che l'esame dia un esito positivo per errore, un falso positivo, e che la donna si sottoponga a una serie di accertamenti, anche invasivi, per poi scoprire di non avere nulla. Ed è possibile che l'esame rilevi un tumore poco aggressivo. “Le conoscenze attuali impediscono di distinguere tra i tumori che diventeranno aggressivi e quelli che non costituiscono una minaccia per la vita”, scrivono gli esperti dell'Osservatorio Nazionale Screening. La donna, dunque, si sottoporrà a trattamenti invasivi per combattere un tumore che non le avrebbe creato alcun problema se nessuno si fosse accorto della sua presenza.

Falsi positivi e sovradiagnosi sono inevitabili quando parte di una popolazione si sottopone a screening per la diagnosi precoce di una malattia. Compito di epidemiologi e oncologi è mettere a punto un protocollo di screening che riduca al minimo la percentuale di falsi positivi, di sovradiagnosi e conseguenti sovratrattamenti, di stabilire delle regole su chi deve sottoporsi a quali esami e con quale frequenza per trarne il massimo beneficio

“Allo stato attuale, il protocollo raccomandato a livello europeo sulla base dell'evidenza scientifica per salvare il maggior numero di vite riducendo al minimo falsi positivi e sovradiagnosi prevede di effettuare una mammografia all'anno a tutte le donne di età compresa tra 45 e 49 anni e una ogni due anni dai 50 ai 74”, spiega Marco Zappa, direttore dell'Osservatorio Nazionale Screening. “Tra i 40 e i 44 anni c'è una debole evidenza di utilità, quindi in questa fascia non vengono raccomandati e offerti gratuitamente esami, ma può avere senso la decisione a livello individuale di sottoporsi a una mammografia all'anno. Prima dei 40 anni, salvo casi specifici ad alto rischio, fare controlli è controproducente, perché l'incidenza della malattia è bassa e perché la maggiore densità dei tessuti del seno riduce l'efficacia dell'esame. La probabilità di incorrere in un falso positivo o in un caso di sovradiagnosi è eccessiva. L'ecografia della mammella non è un test di screening ma un esame di secondo livello: va fatto quando il medico lo richiede per approfondire un sospetto emerso a seguito di una mammografia. Infine, la visita senologica ha una sensibilità ridotta e non permette di rilevare tumori in fase precoce, ma solo quelli di dimensioni già apprezzabili. È utile farla, ma non come sostituto della mammografia nelle fasce di età in cui l'esame è raccomandato”.




Il messaggio giusto da trasmettere per sensibilizzare la popolazione sull'utilità della diagnosi precoce, quindi, è: sottoporsi a mammografie annuali tra i 45 e i 49 anni, ogni due anni dai 50 ai 74 e, opportunamente informate dal medico curante, decidere individualmente se sottoporsi a mammografia annuale dai 40 ai 44 anni.

I limiti dello screening pubblico


Questo protocollo, giudicato come il più efficace a livello nazionale ed europeo, non è stato però ancora adottato da tutte le Regioni italiane. Salvo che in Piemonte e in Emilia Romagna, l'offerta pubblica gratuita è ferma alle raccomandazioni precedenti: una mammografia ogni due anni da 50 a 69 anni. 

Inoltre, l'offerta del servizio sanitario pubblico non raggiunge tutte le donne a cui sarebbe destinata. “Le ASL convocano le donne della fascia d'età prevista che risultano residenti nel proprio territorio con una lettera spedita al domicilio, ma gli indirizzi forniti dall'anagrafe non sempre sono corretti e aggiornati, dunque non sempre le lettere raggiungono le destinatarie”, dice Zappa. “C'è poi una parte di popolazione che rimane esclusa: gli immigrati irregolari, le persone che occupano abusivamente un alloggio. Spesso nelle aree più degradate delle città le situazioni abitative non sono chiare”. E ci sono tante donne che sottovalutano l'utilità dello screening, perché male informate o perché hanno altre priorità, necessità più pressanti, e dunque non rispondono alla chiamata se la ricevono.

Secondo i dati raccolti dal sistema di sorveglianza Passi dell'Istituto Superiore di Sanità, tra il 2013 e il 2015 in Italia il 72% delle donne di età compresa tra 50 e 69 anni ha effettuato una mammografia entro i due anni precedenti (l'82% al Nord, il 77% al Centro e il 57% al Sud e nelle isole). A livello nazionale, il 53% ha eseguito la mammografia nell'ambito dello screening pubblico, gratuitamente. Il 19% privatamente, pagando la prestazione.



Un altro messaggio utile da trasmettere, quindi, è di accettare l'invito allo screening pubblico qualora lo si riceva e attivarsi personalmente se non lo si riceve entro i tempi giusti. Ben vengano le iniziative di promozione, nel mese di ottobre e durante il resto dell'anno, che mirano a raggiungere le fasce di popolazione tagliate fuori dall'offerta pubblica, purché i controlli vengano raccomandati all'età giusta e con la giusta frequenza.

I casi ad alto rischio


C'è poi una piccola parte della popolazione ad alto rischio di sviluppare un tumore al seno, anche in giovane età, perché geneticamente predisposta. Il 5-7% di tutti i casi di tumore alla mammella è legato a fattori ereditari. Un terzo di questi è dovuto a una mutazione patogena di uno o entrambi i geni BRCA-1 e BRCA-2. “Una donna portatrice di una mutazione patogena di un gene BRCA ha un rischio di sviluppare un tumore al seno nel corso della vita che va dal 60 al 90% a seconda della specifica mutazione. Dovrebbe iniziare i controlli a 25 anni, seguendo un protocollo diagnostico specifico”, dice Stefania Gori, presidente eletta dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica.

Ma come identificare le portatrici? Con il test genetico, in uso da più di un decennio, che negli ultimi anni è diventato più accessibile ed economico per i progressi delle tecniche di analisi del DNA. In Italia i centri pubblici che lo offrono, insieme alla necessaria consulenza di un genetista oncologo, sono relativamente pochi e le liste d'attesa e i tempi per avere il referto sono lunghi. Diversi laboratori privati si sono attrezzati per soddisfare la richiesta crescente, ma non sempre offrono garanzie di qualità pari a quelle delle strutture pubbliche, che di solito sono centri universitari ad alta specializzazione.

Inoltre, è importante ricordare, come si legge nel documento “Test BRCA: call to action per la prevenzione e cura del carcinoma ovarico e della mammella”, dell'Osservatorio Nazionale per la Salute della Donna, che per interpretare il referto occorre un alto grado di esperienza specifica. Le conoscenze sul significato clinico delle varianti dei geni BRCA sono ancora in evoluzione. Non esistono standard a livello internazionale. Per tradurre il risultato del test in termini numerici di rischio non si può prescindere dalla consulenza di un genetista.

Al genetista oncologo spetta anche decidere a chi raccomandare l'esame e a chi sconsigliarlo, dopo aver valutato la storia clinica personale e familiare della donna. “L'esame può essere utile a una donna che abbia parenti di primo grado colpite da tumore al seno in giovane età: la madre, la nonna, sorelle. Oppure che abbia già avuto un tumore al seno e abbia precedenti familiari a qualunque età”, spiega Marco Zappa. “In questi caso, oltre a effettuare il test genetico è necessario impostare un programma personalizzato di controlli frequenti”.

Il Piano Nazionale della Prevenzione 2014-2018 include una raccomandazione alle Regioni perché organizzino una rete di centri di riferimento e dei protocolli per offrire il test dei geni BRCA a chi può trarne beneficio. Al momento, però, l'offerta delle Regioni non segue alcuna programmazione ed è disomogenea. 

POSTILLA AL POST

A proposito della fascia d'età in cui è raccomandato sottoporsi a mammografie periodiche, Marco Zappa, direttore dell'Osservatorio Nazionale Screening mi ha detto che c'è consenso tra gli specialisti europei e italiani sull'opportunità di sottoporre a mammografia annuale le donne di età compresa tra 45 e 49 anni, oltre alla mammografia ogni due anni tra 50 e 69 anni. Come riferimento bibliografico mi ha indicato il documento di consenso italiano che ho linkato nel post. Non ho riferimenti europei disponibili.
Ne ho parlato con Carmine Pinto, presidente attualmente in carica dell'AIOM, il quale condivide quanto detto da Zappa. A lui risulta che esista un documento di consenso dell'European Society for Medical Oncology, anche se non me l'ha saputo indicare. Le linee guida più recenti che ho trovato sul sito della Società Europea risalgono al 2015 e riguardo l'ampliamento dello screening dicono: "There is controversy and no consensus regarding the role of screening in women aged 40-49 years".
Carlo Nardoni, già responsabile dei programmi di screening della Regione Emilia Romagna e fondatore dell'Osservatorio Nazionale Screening insieme a Marco Zappa, mi ha segnalato la pagina web con i risultati annuali dello screening in Emilia Romagna, che ha esteso l'offerta alle donne da 45 a 49 anni e da 70 a 74. Trovate i dati qui.
Concludendo, in attesa di trovare altra documentazione, c'è l'evidenza scientifica che sottoporsi a una mammografia all'anno da 45 a 49 anni sia vantaggioso, ma dal punto di vista statistico si tratta di un'evidenza ancora poco significativa. Alcune Regioni, prima tra tutte l'Emilia Romagna, si stanno organizzando in tal senso.

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Ho trovato anche questo documento, pubblicato dalla European Society of Breast Imaging nel 2017, in cui si indica come prima priorità lo screening nella fascia 50-69 anni, come seconda priorità l'ampliamento da 70 a 74 anni e come terza priorità l'ampliamento da 45 a 49 anni. Sull'utilità dello screening annuale da 45 a 49 anni ci sarebbe "evidenza limitata".