martedì 13 gennaio 2015

Diventare mamma dopo un tumore


Marina aveva 28 anni, un lavoro, un compagno, una normale vita piena di impegni, quando le hanno diagnosticato il tumore al seno. “Improvvisamente tutto è sparito in un buco nero”, racconta. “Le mie priorità, i miei desideri... tutto ingoiato dalla malattia. Ho fatto esami, biopsie, l'intervento, la radio e la chemio”.
Da principio, non le è venuto in mente di chiedere se le terapie potevano compromettere la sua fertilità, se dopo avrebbe ancora potuto diventare mamma. “Il mio unico pensiero era salvare la pelle, arrivarci, al dopo”, dice Marina. “Non mi sono informata, non ho chiesto e nessuno mi ha detto nulla”.
Durante la chemio il ciclo si è interrotto e, a distanza di due anni dalla fine delle terapie, non è ancora ripartito. “Ora che mi sento più tranquilla, che la grande paura è passata, mi chiedo se tornerò fertile, se potrò cercare una gravidanza spontanea, se dovrò fare ricorso alla PMA”, si interroga.

Un problema di tante

Sono sempre più numerose le donne che affrontano la questione della maternità dopo un cancro, perché sono in aumento le diagnosi in età fertile di alcuni tipi di tumore, perché la ricerca della prima gravidanza si è spostata in avanti e perché migliorano progressivamente le prospettive di guarigione.
“Ogni anno 5.000 donne nel nostro Paese devono confrontarsi con un tumore quando potrebbero ancora diventare madri”, spiega Elisabetta Iannelli, segretaria della Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia.
Il cancro al seno e i linfomi rappresentano il 60% dei tumori diagnosticati sotto i 40 anni e nella maggior parte dei casi vengono trattati con chemioterapia potenzialmente tossica per la funzione ovarica. Ogni anno, dunque, sono circa 3.000 le donne a rischio di menopausa precoce a causa di una terapia antineoplastica. “Dai dati della letteratura si evince che la metà, circa 1.500, è interessata a preservare la propria fertilità”, dice Fedro Peccatori, direttore dell'Unità di Fertilità e Procreazione dell'Istituto Europeo di Oncologia.
La risposta del Servizio Sanitario Nazionale a questa esigenza per il momento è insufficiente. “Non sono stati definiti percorsi clinico assistenziali dedicati, l'informazione alle dirette interessate è carente e i farmaci necessari per preservare la fertilità sono interamente a carico delle pazienti”, osserva Iannelli.
Rhoda Baer via Wikimedia Commons

Le cause dell'infertilità

Tutti i trattamenti antitumorali possono compromettere la fertilità femminile, temporaneamente o definitivamente. Se la malattia coinvolge l'apparato genitale, l'intervento chirurgico di rimozione del tumore può comportare la perdita o la riduzione della capacità riproduttiva e l'irradiazione dell'addome può danneggiare l'utero o le ovaie.
Inoltre, in qualunque sede sia localizzato il tumore, la chemioterapia può indurre menopausa precoce. “Il rischio di sterilità dipende da diversi fattori: età della donna, lunghezza del trattamento e scelta dei farmaci”, spiega Fedro Peccatori. “Quelli a maggior rischio sono i regimi di chemio che contengono i farmaci della classe degli alchilanti, come la ciclofosfamide il melphalan e il busulfano. Anche altri farmaci sono potenzialmente tossici, ad esempio le antracicline e i taxani”.
Infine, l'ormonoterapia, utilizzata nel trattamento di alcuni tipi di tumore della mammella, quelli sensibili all'azione del progesterone o degli ormoni estrogeni, comporta anch'essa un rischio di infertilità, sebbene inferiore a quello della chemio.

Due possibili approcci

Due sono i possibili approcci per preservare la fertilità in vista di un trattamento chemioterapico. “La raccolta di ovociti e la loro crioconservazione per un successivo utilizzo, e la somministrazione di farmaci che proteggono le ovaie durante la terapia”, dice Peccatori. “Entrambe le tecniche possono essere applicate alla stessa paziente e il tasso di successo è relativamente elevato”.
Il congelamento degli ovociti offre il 30% di probabilità di diventare madre dopo la guarigione, ma non sempre è praticabile, perché la stimolazione ovarica e la raccolta di cellule richiedono non meno di dieci giorni e a volte non si può aspettare, non si può ritardare l'avvio del trattamento antitumorale. “Di solito si preferisce eseguire la stimolazione dopo avere rimosso chirurgicamente la neoplasia”, prosegue Peccatori. “Le più recenti evidenze confermano che non c'è un rischio aumentato di recidiva se la paziente si sottopone a stimolazione ovarica e crioconservazione ovocitaria anche in presenza di neoplasie ormonosensibili. In questo caso si usano regimi di stimolazione adattati”.
I farmaci che proteggono le ovaie durante la chemioterapia sono gli LHRH analoghi, che annullano la produzione di estrogeni, inibiscono l'attività ovarica e così facendo rendono i follicoli meno sensibili all'azione dannosa dei chemioterapici. “I dati della letteratura dimostrano una protezione che va dal 17 al 60% di riduzione del rischio di amenorrea”, puntualizza Peccatori.
Tom e Katrien via Wikimedia Commons

Le carenze del servizio sanitario

La difficoltà maggiore a cui vanno incontro oggi le donne che desiderano preservare la propria fertilità durante un trattamento antitumorale è il costo dei farmaci necessari, che è interamente a carico della paziente.
“Gli LHRH analoghi sono indicati per il trattamento del tumore mammario endocrinoresponsivo in premenopausa, della pubertà precoce, dei fibromi e dall'endometriosi”, spiega Peccatori. “Tra le indicazioni non figura la protezione delle ovaie durante la chemioterapia, dunque il farmaco non è rimborsabile per questo utilizzo e la richiesta di nuova indicazione da parte dell'industria è una pratica complicata e costosa. A fronte di un vantaggio economico non elevato, le aziende non hanno interesse ad ampliare l'indicazione”.
Lo stesso problema riguarda i farmaci utilizzati per stimolare la produzione di ovociti da crioconservare. “La loro prescrizione è gratuita per le coppie infertili, tuttavia formalmente le pazienti oncologiche non sono infertili nel momento in cui accedono alla crioconservazione, perché non hanno ancora iniziato i trattamenti gonadotossici”, spiega Elisabetta Iannelli della FAVO. “Non essendo formalmente infertili, non possono accedere alla prescrizione attraverso il Servizio Sanitario Nazionale, per questo devono pagare i farmaci”.
La FAVO e altre associazioni di pazienti e famigliari chiedono di applicare a questi medicinali la legge 648/96, che consente di erogare a carico del Servizio Sanitario Nazionale farmaci da impiegare per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, previo parere favorevole della Commissione consultiva Tecnico Scientifica dell’AIFA.
“Chiediamo inoltre di aggiungere ai fogli illustrativi dei farmaci antitumorali gonadotossici gli eventuali effetti nocivi sulla fertilità futura, in modo che i pazienti ne siano informati in
modo semplice e diretto e stimolati a chiedere maggiori chiarimenti ai medici di riferimento”, dice Iannelli.
Quello dell'informazione è un aspetto cruciale della questione. “Non sempre alle donne che ricevono una diagnosi di tumore in età fertile viene prospettata la possibilità di preservare la fertilità, non dappertutto”, osserva Peccatori. “Ci sono centri dove la sensibilità è maggiore e il tasso di informazione è maggiore di altri. Il problema esiste, e la soluzione non può essere lasciata solo alla buona volontà dei singoli. Se vogliamo dare significato alla centralità della paziente nel percorso di cura, non possiamo dimenticare l’importanza della prevenzione della infertilità dovuta ai trattamenti oncologici”.
L'appello delle associazioni di pazienti per la prevenzione dell'infertilità

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