Marina aveva 28 anni, un lavoro, un
compagno, una normale vita piena di impegni, quando le hanno
diagnosticato il tumore al seno. “Improvvisamente tutto è sparito
in un buco nero”, racconta. “Le mie priorità, i miei desideri...
tutto ingoiato dalla malattia. Ho fatto esami, biopsie, l'intervento,
la radio e la chemio”.
Da principio, non le è venuto in mente
di chiedere se le terapie potevano compromettere la sua fertilità,
se dopo avrebbe ancora potuto diventare mamma. “Il mio unico
pensiero era salvare la pelle, arrivarci, al dopo”, dice Marina.
“Non mi sono informata, non ho chiesto e nessuno mi ha detto
nulla”.
Durante la chemio il ciclo si è
interrotto e, a distanza di due anni dalla fine delle terapie, non è
ancora ripartito. “Ora che mi sento più tranquilla, che la grande
paura è passata, mi chiedo se tornerò fertile, se potrò cercare
una gravidanza spontanea, se dovrò fare ricorso alla PMA”, si
interroga.
Un problema di tante
Sono sempre più numerose le donne che
affrontano la questione della maternità dopo un cancro, perché sono
in aumento le diagnosi in età fertile di alcuni tipi di tumore,
perché la ricerca della prima gravidanza si è spostata in avanti e
perché migliorano progressivamente le prospettive di guarigione.
“Ogni anno 5.000 donne nel nostro
Paese devono confrontarsi con un tumore quando potrebbero ancora
diventare madri”, spiega Elisabetta Iannelli, segretaria della
Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia.
Il cancro al seno e i linfomi
rappresentano il 60% dei tumori diagnosticati sotto i 40 anni e nella
maggior parte dei casi vengono trattati con chemioterapia
potenzialmente tossica per la funzione ovarica. Ogni anno, dunque,
sono circa 3.000 le donne a rischio di menopausa precoce a causa di
una terapia antineoplastica. “Dai dati della letteratura si evince
che la metà, circa 1.500, è interessata a preservare la propria
fertilità”, dice Fedro Peccatori, direttore dell'Unità di
Fertilità e Procreazione dell'Istituto Europeo di Oncologia.
La risposta del Servizio Sanitario
Nazionale a questa esigenza per il momento è insufficiente. “Non
sono stati definiti percorsi clinico assistenziali dedicati,
l'informazione alle dirette interessate è carente e i farmaci
necessari per preservare la fertilità sono interamente a carico
delle pazienti”, osserva Iannelli.
Rhoda Baer via Wikimedia Commons |
Le cause dell'infertilità
Tutti
i trattamenti antitumorali possono compromettere la fertilità
femminile, temporaneamente o definitivamente. Se la malattia
coinvolge l'apparato genitale, l'intervento chirurgico di rimozione
del tumore può comportare la perdita o la riduzione della capacità
riproduttiva e l'irradiazione dell'addome può danneggiare l'utero o
le ovaie.
Inoltre,
in qualunque sede sia localizzato il tumore, la chemioterapia può
indurre menopausa precoce. “Il rischio di sterilità dipende da
diversi fattori: età della donna, lunghezza del trattamento e
scelta dei farmaci”, spiega Fedro Peccatori. “Quelli a maggior
rischio sono i regimi di chemio che contengono i farmaci della classe
degli alchilanti, come la ciclofosfamide il melphalan e il busulfano.
Anche altri farmaci sono potenzialmente tossici, ad esempio le
antracicline e i taxani”.
Infine, l'ormonoterapia, utilizzata nel
trattamento di alcuni tipi di tumore della mammella, quelli sensibili
all'azione del progesterone o degli ormoni estrogeni, comporta
anch'essa un rischio di infertilità, sebbene inferiore a quello
della chemio.
Due possibili approcci
Due sono i possibili approcci per
preservare la fertilità in vista di un trattamento chemioterapico.
“La raccolta di ovociti e la loro crioconservazione per un
successivo utilizzo, e la somministrazione di farmaci che proteggono
le ovaie durante la terapia”, dice Peccatori. “Entrambe le
tecniche possono essere applicate alla stessa paziente e il tasso di
successo è relativamente elevato”.
Il congelamento degli ovociti offre il
30% di probabilità di diventare madre dopo la guarigione, ma non
sempre è praticabile, perché la stimolazione ovarica e la raccolta
di cellule richiedono non meno di dieci giorni e a volte non si può
aspettare, non si può ritardare l'avvio del trattamento
antitumorale. “Di solito si preferisce eseguire la stimolazione
dopo avere rimosso chirurgicamente la neoplasia”, prosegue
Peccatori. “Le più recenti evidenze confermano che non c'è un
rischio aumentato di recidiva se la paziente si sottopone a
stimolazione ovarica e crioconservazione ovocitaria anche in presenza
di neoplasie ormonosensibili. In questo caso si usano regimi di
stimolazione adattati”.
I farmaci che proteggono le ovaie
durante la chemioterapia sono gli LHRH analoghi, che annullano la
produzione di estrogeni, inibiscono l'attività ovarica e così
facendo rendono i follicoli meno sensibili all'azione dannosa dei
chemioterapici. “I dati della letteratura dimostrano una protezione
che va dal 17 al 60% di riduzione del rischio di amenorrea”,
puntualizza Peccatori.
Tom e Katrien via Wikimedia Commons |
Le carenze del servizio sanitario
La difficoltà maggiore a cui vanno
incontro oggi le donne che desiderano preservare la propria fertilità
durante un trattamento antitumorale è il costo dei farmaci
necessari, che è interamente a carico della paziente.
“Gli LHRH analoghi sono indicati per
il trattamento del tumore mammario endocrinoresponsivo in
premenopausa, della pubertà precoce, dei fibromi e
dall'endometriosi”, spiega Peccatori. “Tra le indicazioni non
figura la protezione delle ovaie durante la chemioterapia, dunque il
farmaco non è rimborsabile per questo utilizzo e la richiesta di
nuova indicazione da parte dell'industria è una pratica complicata e
costosa. A fronte di un vantaggio economico non elevato, le aziende
non hanno interesse ad ampliare l'indicazione”.
Lo stesso problema riguarda i farmaci
utilizzati per stimolare la produzione di ovociti da crioconservare.
“La loro prescrizione è gratuita per le coppie infertili, tuttavia
formalmente le pazienti oncologiche non sono infertili nel momento in
cui accedono alla crioconservazione, perché non hanno ancora
iniziato i trattamenti gonadotossici”, spiega Elisabetta Iannelli
della FAVO. “Non essendo formalmente infertili, non possono
accedere alla prescrizione attraverso il Servizio Sanitario
Nazionale, per questo devono pagare i farmaci”.
La FAVO e altre associazioni di
pazienti e famigliari chiedono di applicare a questi medicinali la
legge 648/96, che consente di erogare a carico del Servizio Sanitario
Nazionale farmaci da impiegare per una indicazione terapeutica
diversa da quella autorizzata, previo parere favorevole della
Commissione consultiva Tecnico Scientifica dell’AIFA.
“Chiediamo inoltre di aggiungere ai
fogli illustrativi dei farmaci antitumorali gonadotossici gli
eventuali effetti nocivi sulla fertilità futura, in modo che i
pazienti ne siano informati in
modo semplice e diretto e stimolati a
chiedere maggiori chiarimenti ai medici di riferimento”, dice
Iannelli.
Quello dell'informazione è un aspetto
cruciale della questione. “Non sempre alle donne che ricevono una
diagnosi di tumore in età fertile viene prospettata la possibilità
di preservare la fertilità, non dappertutto”, osserva Peccatori.
“Ci sono centri dove la sensibilità è maggiore e il tasso di
informazione è maggiore di altri. Il
problema esiste, e la
soluzione
non può essere lasciata solo alla buona volontà dei singoli. Se
vogliamo dare
significato
alla centralità della paziente nel percorso di cura, non possiamo
dimenticare
l’importanza
della prevenzione della infertilità dovuta ai trattamenti
oncologici”.
L'appello delle associazioni di pazienti per la prevenzione dell'infertilità |
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