Da
alcuni giorni si discute di violenza ostetrica, di maltrattamenti e
abusi nei confronti delle donne che partoriscono, di mamme che vivono
la nascita del proprio bimbo come un'esperienza di solitudine, paura
e impotenza. Un'amica ostetrica con cui ne ho parlato osserva che il
problema sarebbe in gran parte risolto se tutte le donne in travaglio
potessero godere di assistenza dedicata e continua, anche nei momenti
in cui non è necessario alcun intervento clinico e c'è solo da
aspettare, la cosiddetta assistenza one-to-one. Assistenza
rispettosa, ovviamente.
Avere
accanto una persona di fiducia non giova solo alla serenità della
partoriente, al suo benessere psicologico, ma anche al buon esito del
parto e alla salute di mamma e figlio. Giova in modo tangibile e
misurabile, come dimostra una revisione della letteratura medica
pubblicata giusto qualche settimana fa dalla Cochrane Library,
che analizza i risultati di 27 studi condotti su oltre 15.000 donne
provenienti da una varietà di Paesi in condizioni igieniche e
socio-economiche differenti. L'assistenza continua durante il
travaglio e il parto, dimostra la review, è associata a una maggior
frequenza di parto vaginale spontaneo e a una minore necessità di
far ricorso a taglio cesareo, episiotomia, forcipe o ventosa, a una
minore richiesta di analgesia, a minore durata del travaglio e, per
il bambino, a una minore probabilità di avere basso indice di Apgar
a cinque minuti dalla nascita. L'indice di Apgar, lo ricordiamo, è
un parametro di valore compreso tra 0 e 10, che descrive le
condizioni di salute del neonato: frequenza cardiaca, riflessi,
colorito, tono muscolare e respirazione.
Che
cosa vuol dire assistenza durante il travaglio e il parto? Assistenza
medica? Compagnia, conforto? La revisione della Cochrane non fa
distinzioni da questo punto di vista: l'evidenza dei benefici
riguarda donne assistite da ostetriche, infermiere, doule, parenti o
persone amiche e concretamente si manifesta come conforto emotivo,
compagnia, aiuto a cambiare posizione e deambulare, massaggi, offerta
di cibo e bevande, informazioni, mediazione con il personale
sanitario. “È sufficiente la sola presenza di una persona che
funga da testimone del vissuto e delle emozioni della partoriente,
per ottenere dei vantaggi evidenti”, dice Laura Castellarin,
ostetrica co-fondatrice dell'associazione Nascere Insieme. “I
benefici descritti da questa ricerca sono legati alla continuità del
sostegno e non riguardano in modo specifico l'assistenza ostetrica.
Ciò nulla toglie all'importanza della figura professionale
dell'ostetrica, l'unica che unisce l'abilità di accompagnamento alle
competenze cliniche e che è preparata per l'assistenza nella
fisiologia, al contrario del medico che ha competenze specifiche per
intervenire in condizioni di patologia. I vantaggi dell'assistenza
ostetrica continua e dedicata alla singola partoriente sono ben
conosciuti e documentati da una mole di altre ricerche”.
Non “siamo fatte” per partorire da sole
Qualche
tempo fa mi sono imbattuta in uno studio molto interessante. È del
1995, pubblicato sulla rivista Evolutionary Antropology, a firma
delle antropologhe Wenda Trevathan e Karen Rosenberg, e si intitola
“Bipedalism and Human Birth: the Ostetrical Dilemma Revisited”.
Quando
i nostri antenati hanno abbandonato l'andatura quadrupede per
assumere la posizione eretta, la struttura del bacino delle loro
femmine è mutata, spiegano Trevathan e Rosenberg. Non solo il canale
del parto si è fatto più stretto in proporzione alle dimensioni
della testa del nascituro, rispetto a quello degli altri primati, ma
la sua conformazione è cambiata in modo tale che il piccolo ominide
al passaggio attraverso le pelvi materne è costretto a effettuare
delle giravolte, per accomodare i diversi diametri della testa e
delle spalle. Il risultato è che negli altri primati alla nascita il
piccolo emerge con il viso voltato nello stesso verso di quello della
partoriente, mentre nei nostri antenati e nell'uomo moderno nella
maggior parte dei casi emerge con il viso rivolto nel verso opposto.
A
questa trasformazione imposta dal passaggio all'andatura bipede, si è
sommato l'aumento delle dimensioni del cranio umano per fare spazio a
un cervello sempre più voluminoso. I piccoli umani non possono
completare in utero lo sviluppo del cervello, altrimenti la loro
testa diventerebbe troppo grande per passare attraverso il canale del
parto. Lo completano nel corso del tempo, nei primi anni di vita.
Alla nascita le loro competenze motorie, dunque, sono immature
rispetto a quelle dei neonati degli altri primati e non sono in grado
di collaborare attivamente come fanno, per esempio, gli scimpanzé.
L'ampiezza del canale del parto rispetto al cranio del neonato dello scimpanzé, della nostra antenata Lucy e della donna moderna |
Le
femmine dei primati non umani, spiegano le autrici dello studio,
partoriscono da sole, in un luogo isolato, al sicuro da eventuali
predatori ma anche lontano dagli occhi degli altri individui del
gruppo di appartenenza. Il piccolo alla nascita si districa da solo
dal cordone e la madre, che lo espelle in posizione accovacciata, lo
afferra agevolmente e lo solleva fino al seno per avviare
l'allattamento.
Anche
le femmine dei nostri antenati ominidi e le donne moderne partorivano
e partoriscono di preferenza in posizione accovacciata, laddove non
viene imposto loro diversamente, ma non possono afferrare il neonato
e sollevarlo in avanti con altrettanta facilità, perché il piccolo
ha il viso e la spina dorsale orientati nel verso opposto. Inoltre,
qualcuno deve aiutare il neonato a districarsi se ha il cordone
arrotolato intorno al collo o al corpo, perché da solo non ce la fa.
La
femmina umana ha bisogno di assistenza per dare alla luce i suoi
piccoli e la selezione naturale ha premiato le nostre antenate che
cercavano il sostegno e il conforto dei propri simili durante il
travaglio e il parto. Secondo l'ipotesi rivoluzionaria di Wenda
Trevathan e Karen Rosenberg, il dolore, la paura e il senso di
smarrimento che tutte le donne provano in procinto di partorire sono
escamotage evolutivi per spingere la femmina umana a cercare aiuto.
Il desiderio della presenza di una persona fidata al momento della
nascita è profondamente radicato nella storia della nostra
evoluzione.
Chi accompagna la donna
“Storicamente
la continuità dell'assistenza alle donne, nel periodo della
gravidanza, del parto e del puerperio, è sempre stata svolta
dall'ostetrica, sia che fosse diplomata, sia che tale ruolo le
venisse riconosciuto dalle altre donne”, spiega Susanna Marongiu,
ostetrica del consultorio familiare di Monserrato, in provincia di
Cagliari. “In genere l'ostetrica e il medico di famiglia erano le
uniche due figure che avevano conoscenze di anatomia e fisiologia del
corpo umano e, più in generale, di medicina. È evidente che per
poter ricoprire tale ruolo, soprattutto quando questo le veniva
conferito dalla stessa popolazione, l'ostetrica doveva avere anche
altri requisiti, come l'empatia, la riservatezza, la fiducia, la
complicità, la capacità di ascolto e di comunicazione. Era
indispensabile, a tale proposito, che fosse una donna dello stesso
contesto culturale, sociale e ambientale. Questi ultimi requisiti
cominciarono a venire meno con la scolarizzazione delle ostetriche e
con l'obbligatorietà per i Comuni di assumere nel proprio organico
un'ostetrica diplomata. Ciò ha comportato l'inizio di un fenomeno
migratorio, dovuto alla scarsità di ostetriche diplomate e alle
poche Università abilitate a tale scopo. Quindi le ostetriche
diplomate cominciarono a essere estranee al luogo di lavoro e alla
popolazione di riferimento. In moltissime realtà ciò ha comportato
la convivenza dell'ostetrica diplomata e delle donne esperte di
parto, le cosiddette empiriche o donne pratiche. Spesso le donne
esperte erano anziane della comunità, già madri, o coetanee che
avevano vissuto esperienze di maternità e di parto”.
Lo
scrivono anche gli autori della revisione Cochrane sui benefici
dell'accompagnamento: un tempo le partorienti davano alla luce i loro
bimbi alla presenza delle altre donne del clan familiare o della
comunità di appartenenza. L'assistenza continua era la norma. Oggi,
con l'uso prevalente di partorire in ospedale, in molti contesti
l'assistenza continua è diventata l'eccezione. “È abbastanza
difficile oggi che in un ospedale italiano la donna possa godere di
assistenza ostetrica continua e dedicata in travaglio”, dice Laura
Castellarin. “Capita talvolta nei piccoli centri nascita, dove la
frequenza dei parti è relativamente bassa. Nelle grandi strutture,
con molti accessi, di solito un'ostetrica si trova a seguire
contemporaneamente diverse donne. Per garantire l'assistenza
one-to-one, occorre che la direzione sanitaria dell'ospedale faccia
uno sforzo organizzativo consapevole. Non è una questione economica,
perché è dimostrato che l'assistenza one-to-one riduce il rischio
di complicanze e dunque di costosi interventi medici. Il ritorno
economico ci sarebbe e giustificherebbe l'investimento. Oggi però si
tende a credere che sia meglio investire in tecnologia piuttosto che
in risorse umane. Invece la ricerca dimostra che nel caso
dell'assistenza al parto è proprio il fattore umano che fa la
differenza”. Il risultato è che spesso la donna in travaglio
rimane a tratti da sola, nelle fasi meno impegnative dal punto di
vista clinico.
Da
questo punto di vista, le piccole strutture offrono condizioni
migliori rispetto alle grandi, dove invece il personale ha maggiore
esperienza nel trattamento delle emergenze e delle complicazioni.
Felici eccezioni sono i grandi ospedali attrezzati per garantire cure
continue e dedicate, nel rispetto della fisiologia, oltre ad avere le
risorse umane e tecniche per intervenire in modo rapido ed efficace
nell'urgenza e nella patologia.
I familiari, gli amici, la doula
Ecco
perché conviene che la partoriente sia accompagnata da una persona
amica, che possa effettivamente dedicarsi a tempo pieno a lei. “È
opportuno indipendentemente dalla possibilità di avere assistenza
ostetrica continua one-to-one”, precisa Castellarin, “perché
l'accompagnatore o l'accompagnatrice della partoriente è una persona
familiare, al contrario dell'ostetrica che spesso è un'estranea, e
la futura mamma ha l'esigenza di essere confortata da una persona
familiare, che faccia anche da tramite con i sanitari”.
E
se la partoriente non avesse modo di farsi accompagnare dal partner,
da una parente o da un'amica? “In questo scenario emergono nuove
figure che sostituiscono il clan femminile di altri tempi e che
possono in parte colmare le lacune dell'assistenza ostetrica, laddove
le ostetriche sono numericamente insufficienti oppure individualmente
poco disponibili a farsi carico anche delle esigenze emotive della
donna”, dice Susanna Marongiu, “Sono le cosiddette doule, o
assistenti alla maternità, o custodi della nascita, che svolgono una
funzione di vicinanza emotiva e di sostegno che è altrettanto
importante quanto quella sanitaria. Le loro prestazioni non sono atti
solidaristici a favore di un'amica o di una parente, quindi
richiedono un compenso. Assistiamo così alla nascita di una nuova
professione, che però non è ancora disciplinata da alcuna legge, al
contrario di altre professioni sanitarie, come quella del medico e
dell'ostetrica”.
La
doula naturalmente non può e non deve sostituirsi all'ostetrica nel
ruolo di assistente clinica. “A questa condizione, se non c'è
competizione o sovrapposizione, la presenza della doula è una
risorsa preziosa non solo per la futura mamma ma anche per
l'ostetrica”, commenta Castellarin.
Alessia
Martini è una doula in formazione che fa parte, come Laura
Castellarin, dell'associazione Nascere Insieme. “Ostetrica e doula
sono due attività differenti, ma con un comune denominatore”,
spiega. “Consentire a madre, padre e bambino la migliore esperienza
perinatale possibile. L'ostetrica è una figura professionale del
comparto sanitario, è iscritta a un albo e opera nell'ambito della
fisiologia della nascita: offre le proprie abilità professionali,
competenze e informazioni scientifiche. La doula invece è
semplicemente una persona che offre il proprio sostegno, emotivo e
materiale, con competenze esclusivamente relazionali e conoscenze
spesso acquisite da una propria esperienza di maternità. Il focus
della doula è la persona, la mamma, il suo ruolo è di
facilitatrice, di confidente: offre ascolto, conforto, accoglienza, è
custode di momenti di grande rilevanza emozionale. La doula sgrava
l'ostetrica dagli aspetti relazionali ed emotivi quando è essenziale
che l'ostetrica concentri tutte le attenzioni sul versante
sanitario”.
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