mercoledì 26 aprile 2017

Il bimbo è nato: prima eravamo in due e adesso siamo in tre

La nascita di un bimbo voluto e cercato porta gioia nella vita dei suoi genitori, è un lieto evento. L'icona della coppia radiosa che sorride al piccolo è un classico dell'immaginario collettivo. Certo, c'è la stanchezza fisica e ci sono le difficoltà organizzative che possono generare qualche contrasto tra mamma e papà nei primi giorni dopo il parto, ma tutto si risolve in breve con un po' di buona volontà e spirito di adattamento.
Eppure, tanti psicologi descrivono la nascita di un figlio, specie il primo, come un'esperienza critica per l'equilibrio della coppia, che può persino causarne la rottura. È solo una questione di stanchezza, qualcosa che non vale la pena di approfondire? O c'è forse una tendenza diffusa a sottovalutare l'enorme cambiamento, sul piano reale e su quello simbolico, che l'ingresso del terzo introduce in una relazione a due e sottacere i sentimenti ambivalenti che i neogenitori possono provare in un momento così importante della loro vita?

Quali dinamiche si attivano nella coppia alla nascita del primo figlio? Quali sono i meccanismi che possono generare tensione e contrasti? L'ho chiesto ad Adriano Legacci, psicoterapeuta e sessuologo di Padova.
Mi ha risposto citando la celebre scena del film “The Matrix” in cui Morpheus offre a Neo la scelta simbolica tra due pillole. “Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie e vedrai quant'è profonda la tana del Bianconiglio”.



Mi ha posto di fronte a una scelta: "Vuole la versione rassicurante, facile da comprendere, accettare e condividere? Oppure vuole gettare uno sguardo sulla straordinaria profondità della mente umana? In ogni singolo istante della nostra esistenza dobbiamo fare i conti con la straordinaria potenza delle forze che si agitano nel nostro inconscio”, si è spiegato Legacci, “di fronte alle quali tendiamo a restare ciechi e sordi, colpevolmente felici di esserlo. Non mi sorprenderebbe, dunque, se lei scegliesse di non parlare di inconscio, per non turbare il quieto sonno dei suoi lettori”.

Di fronte a un invito del genere, non potevo che scegliere la pillola rossa… ed ecco come mi ha descritto la tana del Bianconiglio.

Pietro della Vecchia: Crono mangia i suoi figli

Urano & soci: un trono unico per due pretendenti


“Nel mito e nella leggenda sono rintracciabili straordinari riferimenti ai temi simbolici che si agitano nelle profondità dell'inconscio umano. Ecco alcuni esempi di quel che accade all'avvento del figlio, il giovane principe, nella mente del padre, il vecchio re", illustra lo psicologo. 
"Urano, dio del cielo, e Gea, madre terra, generano figli che il padre sprofonda nella terra per non essere spodestato. 
Crono, uno dei dodici figli nati da Urano e Gea, con la complicità della madre aggredisce ed evira il padre Urano. Lo detronizza e ne prende il posto.
Crono, avvertito da una profezia, vive le stesse angosce del padre: per timore di essere spodestato e cacciato dai figli avuti con Rea, li divora.
Zeus, uno dei figli di Crono destinato ad essere divorato, viene salvato dall'intervento della madre Rea che consegna al padre, al posto del figlio da divorare, una pietra racchiusa tra le fasce.
Sarò quindi Zeus a regnare nell'universo, dopo aver sconfitto e detronizzato il padre.
Questo mito è presente in molte altre forme nell'immaginario umano e culmina nell'Edipo di Sofocle, la tragedia che presta il nome al freudiano conflitto edipico, che costituisce il cuore pulsante dell'attività psichica umana: è il desiderio di eliminazione e sostituzione del genitore dello stesso sesso e di possesso esclusivo del genitore di sesso opposto. Si tratta ovviamente di evocazioni poetiche, ma utili per rappresentare le dinamiche di natura inconscia, o solo parzialmente cosciente, che si manifestano con grande frequenza nella relazione tra padre, madre e figlio successivamente al parto”.


I fantasmi nella mente del padre


Con la nascita del figlio, il legame tra i partner, che prima era esclusivo, deve aprirsi all'ingresso del terzo. “E quello del terzo è uno dei fantasmi più minacciosi che possono presentarsi nella mente umana”, osserva Legacci. “Il bambino diventa il destinatario delle cure, delle premure e del desiderio della madre. Il desiderio viene sottratto all'eros e alla relazione con il partner e destinato al figlio. Il padre passa in secondo piano e deve affrontare la paura inconscia di essere sostituito e detronizzato, che il figlio prenda il suo posto con la complicità della madre, perché sul trono non c'è spazio per tutti. Il padre immagina inconsciamente che il nuovo arrivato voglia fare quello che lui stesso ha cercato di fare da bambino: evirare e detronizzare il vecchio re. È una paura destabilizzante”.

I fantasmi nella mente della madre


Dal canto suo, nella maggior parte dei casi la neomamma è naturalmente portata a concentrarsi empaticamente sul piccolo, bisognoso di cure. Talvolta, però, anche lei si trova a rimpiangere la sua esistenza di prima, la libertà di cui godeva, la vita a due. “Quello dell'ambivalenza, ovvero dell'amore per il figlio unito a insofferenza e respingimento, è un sentimento naturale, che provano tutti. Non è facilmente accettato, però, dalla coscienza. La nostra stessa cultura lo bandisce e lo rende inaccettabile, inesprimibile”, dice lo psicologo, “soprattutto per la madre che nell'immaginario collettivo è instancabile, votata al sacrificio. Oltre alla stanchezza fisica, che indubbiamente gioca un suo ruolo, la donna vive una forte tensione emotiva nel tentativo di comprendere e governare le profonde emozioni e fantasie che si agitano dentro di lei, per metabolizzare un cambiamento così importante nella sua vita”.

Ci sono i casi, poi, in cui la madre dopo il parto cade in uno stato depressivo. "In chiave psicoanalitica è una reazione complessa generata dalla difficoltà ad accettare empaticamente l'avvento di un figlio reale in sostituzione del figlio ideale, fantasticato come parte inscindibile del corpo materno".

Ci vuole consapevolezza


In una conversazione su Facebook Costanza Jesurum, psicoanalista, apprezzata blogger e autrice di saggi, conferma “Questo tipo di vissuto si avverte in moltissime occasioni, in terapia con genitori, nei corsi preparto. Non so se sia funzionale alla traduzione mentale della differenza biologica, per esempio in fatto di allattamento e nutrizione, o perché la forma culturale della famiglia dominante informa le categorie dello psichico”.
Le metafore chiamate in causa da Adriano Legacci non sono l'unica possibile narrazione per rappresentare i turbamenti che i neogenitori affrontano alla nascita del figlio. “Ma non c'è scuola di psicoterapia, ognuna con i suoi miti di riferimento, che non parli della turbativa che implica l'ingresso del terzo”.

Come affrontare questi turbamenti? Come venirne a capo e ristabilire l'equilibro nella vita e nel rapporto di coppia? “Ci vuole consapevolezza”, risponde Legacci. “Non nascondere sentimenti e fantasie ma accettarli, scavare dentro se stessi e parlare, confrontarsi all'interno della coppia. Raramente si parla di queste cose ai futuri genitori prima della nascita, mentre sarebbe bene farlo, per prepararli al cambiamento”.








martedì 4 aprile 2017

Donazione del cordone ombelicale? Facciamo chiarezza


Un fotogramma del documentario "Sangue del suo sangue"
Dopo la nascita, il cordone ombelicale non serve più al tuo bimbo. Viene tagliato e scartato nel cestino dei rifiuti sanitari. È un peccato, perché contiene preziose cellule staminali emopoietiche che possono essere trapiantate, come quelle del midollo osseo, per curare gravi malattie come la leucemia, i linfomi e la talassemia. Donando il cordone puoi salvare una vita, senza alcun danno per te e per il tuo bambino.
È il messaggio veicolato alle future mamme dalle campagne di promozione della donazione del sangue cordonale. Messo in questi termini, l'invito è ineccepibile. Ma la questione è un po' più complessa di così. Le evidenze scientifiche emerse negli ultimi anni hanno messo in dubbio la sicurezza della procedura di raccolta del sangue nei tempi e nei modi attuati in passato, che del tutto innocui per il bambino non erano.

Il documentario


Della questione si occupa il documentario “Sangue del suo sangue”, realizzato dall'ostetrica Amyel Garnaoui con il marito, il regista Angelo Loy: 26 minuti di interviste a ematologi, ginecologi, ostetriche, bioeticisti, mamme, che verrà proiettato per la prima volta in contemporanea nelle sedi di decine di associazioni in tutta Italia il prossimo 7 aprile.
“Lo scopo di questa video inchiesta non è prendere posizione, ma porre delle domande”, dice Elena Skoko, presidente del Comitato per il Rispetto dei Diritti del Neonato (CoRDiN), che ha partecipato alla realizzazione del documentario. “La questione è aperta, oggetto di dibattito e ricerche a livello internazionale. Vogliamo che se ne discuta e che le mamme, coinvolte in prima persona, ricevano informazioni corrette, complete e non semplicistiche”.

Le domande sollevate dal documentario sono tante. Di chi è il sangue donato? È uno scarto inutile, altrimenti destinato alla distruzione, oppure è sangue del bambino? A donare, effettivamente, è la madre o il bambino? Il prelievo può nuocere alla salute del neonato? In che misura e a quali condizioni il prelievo è sicuro?



sangue del suo sangue - teaser from angelo loy on Vimeo.


Cellule preziose


Il sangue presente alla nascita nel cordone ombelicale contiene cellule staminali emopoietiche, cioè cellule non specializzate in grado di generare globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Il suo trapianto, come quello del midollo osseo da donatore adulto, permette di rimpiazzare il sangue malato nei pazienti affetti da talassemia e altre forme gravi di anemia, da leucemie e linfomi. Permette di rigenerare il midollo osseo danneggiato in seguito a trattamenti di radio e chemioterapia.

L'immaturità immunologica delle staminali da cordone abbassa il rischio di rigetto anche quando vengono infuse in un ospite che non sarebbe del tutto compatibile. Ciò le rende preziose per i pazienti che non hanno parenti di primo grado compatibili da cui ricevere una donazione di midollo osseo e che non trovano donatori compatibili neppure tra quelli iscritti al registro pubblico dei donatori di midollo.

Negli anni '90, quando è emersa l'utilità di queste cellule, in tutto il mondo hanno aperto i battenti banche per la crioconservazione del sangue da cordone. In Italia, la prima a entrare in attività è stata quella di Milano. Tra i suoi fondatori c'è l'ematologo Paolo Rebulla, oggi in pensione e consulente della Fondazione Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che nel documentario mostra i grandi contenitori deputati alla conservazione delle sacche di sangue.
Oggi in Italia abbiamo 19 banche”, spiega a Mammifera Digitale, “e circa 40 mila sacche conservate. Ne usiamo solo una piccola parte, ma dobbiamo raccoglierne tante per disporre della massima varietà possibile di caratteristiche genetiche, così da aumentare le probabilità di trovare le cellule compatibili con qualunque paziente ne faccia richiesta. Per questa ragione, nei prossimi anni miriamo a incrementare ancora di più il numero”.

Le banche italiane sono collegate tra loro a formare una rete, coordinata dal Centro Nazionale Sangue, e le caratteristiche genetiche delle cellule conservate sono riportate in un registro internazionale, così che da ogni parte del mondo si possa identificare in tempi brevissimi la sacca utile per un dato paziente e fargliela pervenire.

Di chi è il sangue del cordone?


Durante la gravidanza, il sangue del nascituro circola continuamente tra il suo corpo e la placenta attraverso il cordone ombelicale, un funicolo gelatinoso al cui interno scorrono due arterie e una vena. Le arterie trasportano sangue povero di ossigeno e ricco di prodotti di rifiuto dal feto alla placenta, che in virtù dei suoi scambi col sangue materno, ossigena il liquido, lo pulisce dagli scarti del metabolismo e lo rifornisce di nutrienti. Quindi il sangue fetale torna al nascituro attraverso la vena ombelicale.

La circolazione non si interrompe nell'esatto istante in cui il bimbo viene alla luce, ma prosegue ancora per alcuni minuti, mentre il piccolo è impegnato nei suoi primi atti respiratori e si adatta alla vita extra-uterina. Durante questo intervallo di tempo, le contrazioni dell'utero spingono il sangue ossigenato presente nella placenta verso il neonato, passando per il cordone che ancora pulsa. È un fenomeno fisiologico che prende il nome di trasfusione placentare. Secondo un documento del 2015 del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists britannico, questo passaggio frutta al bambino dagli 80 ai 100 ml di sangue extra, che contengono dai 60 agli 80 mg di ferro, una scorta sufficiente a soddisfare le necessità del piccolo per 5 o 6 mesi di vita. Quando la pulsazione cessa, lo scambio tra placenta e neonato è terminato.


Se il cordone viene “clampato”, cioè chiuso con due pinze e poi tagliato, prima che abbia smesso di pulsare, la trasfusione placentare si interrompe e parte del sangue destinato al neonato rimane nella placenta e nei vasi del cordone stesso. In passato si credeva che clampare il cordone immediatamente dopo l'espulsione del bambino riducesse il rischio di ittero neonatale e di emorragia post partum per la madre, così per decenni la legatura precoce è stata adottata comunemente nella pratica clinica in Italia e nel mondo.


Ecco la mappa delle proiezioni del documentario "Sangue de suo sangue" previste in tutta Italia il 7 aprile


Nuove evidenze



“Negli ultimi dieci anni si è andata accumulando una serie di evidenze scientifiche di verso opposto”, dice il ginecologo Enrico Ferrazzi, direttore del Dipartimento donna, mamma e neonato dell'Ospedale Buzzi di Milano e responsabile del gruppo di studio sulla medicina perinatale della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia. “Numerosi studi hanno dimostrato che il neonato trae beneficio dalla trasfusione placentare. Quel sangue in più aiuta il suo sistema cardiovascolare ad adattarsi al funzionamento extra-uterino, riduce sensibilmente il rischio di anemia a 5-6 mesi e favorisce il suo sviluppo neurologico. Un paio di anni fa, la mole dei risultati critici nei confronti del clampaggio immediato ha raggiunto un livello tale da non poterli più ignorare. L'OMS ha pubblicato un documento che raccomanda di aspettare da 1 a 3 minuti prima di legare e tagliare il cordone. Allo stesso modo si sono pronunciate numerose società scientifiche, tra cui la SIGO in Italia. Non è che oggi sia vietato clampare prima di un minuto dalla nascita, ma chi lo fa va contro l'evidenza scientifica e le buone pratiche cliniche. Un tempo si clampava precocemente nella maggioranza dei parti. Sulla situazione attuale non abbiamo dati certi, ma ritengo che oggi un 50% degli operatori si conformi alle nuove indicazioni e aspetti almeno un minuto”.


Qui entra in gioco la donazione. Nei casi in cui i genitori danno il proprio consenso alla raccolta, dopo l'espulsione del bambino e prima dell'espulsione della placenta, l'ostetrica lega il cordone ed estrae il sangue presente nei suoi vasi. “Ovviamente, quanto prima si lega il cordone, tanto più sangue si ricava”, spiega Gennaro Volpe, ematologo di Bari e presidente della sezione di Bari dell'Associazione Donatrici Italiane di Sangue da Cordone Ombelicale. Nel 2012 ha pubblicato una ricerca sui fattori ostetrici che determinano la raccolta ottimale di cellule.

Su questo aspetto si concentra l'attenzione del documentario “Sangue del suo sangue”. Il video aveva ottenuto il patrocinio della Regione Lazio ed era prevista la sua presentazione in anteprima il 24 marzo in una sala del Palazzo della Regione ma, pochi giorni prima dell'evento, patrocinio e ospitalità sono stati ritirati su sollecitazione del Centro Nazionale Sangue, l'ente pubblico che coordina le banche per la conservazione del sangue cordonale donato.

Perché il CNS è intervenuto contro l'iniziativa? “C'era perplessità circa la proiezione di questa inchiesta in una sede istituzionale quale la Regione Lazio, che ospita due banche pubbliche di cordone”, risponde Simonetta Pupella, che coordina l'area sanitaria del Centro. “Le associazioni promotrici del documentario esprimono critiche nei confronti del prelievo del sangue contenuto nel cordone ombelicale perché tale pratica ridurrebbe l'apporto di sangue al neonato durante le fasi finali del parto, con conseguenze negative per la salute del neonato stesso. L'Organizzazione Mondiale della Sanità e le società scientifiche di molti Paesi raccomandano la legatura e la recisione del cordone non prima di un minuto e l'Italia ha recepito queste indicazioni, sulla base di un parere espresso formalmente dalla Società Italiana di Neonatologia: l'Accordo Stato-Regioni 20/04/2011 stabilisce che, nel caso la coppia decida di donare il sangue cordonale al momento del parto, la legatura non deve avvenire prima di 60 secondi dalla nascita e la raccolta non deve mai interferire con l'assistenza al parto. Per quanto riguarda la presunta incompatibilità tra donazione del sangue cordonale e la salvaguardia della salute del neonato, il prelievo da un minuto fino a due minuti dalla nascita determina una raccolta adeguata di cellule staminali e non interferisce con le procedure del parto. Da quando è stata introdotta in Italia la raccolta del sangue cordonale per finalità di donazione (1993) nessuna reazione avversa è stata segnalata a carico dei neonati 'donatori'. Stesso dicasi per gli altri Paesi europei ed extra-europei”.


Le modalità della donazione in Italia


I risultati di tre studi pubblicati tra il 2015 e il 2016
sulla qualità delle donazioni di sangue da cordone
in funzione del tempo di clampaggio
Oggi dunque gli operatori dei centri nascita accreditati per la donazione sono tenuti ad aspettare un minuto prima di clampare e inserire l'ago per la raccolta”, dice Gennaro Volpe. “Così facendo, otteniamo meno cellule, ma qualcosa riusciamo comunque a raccogliere. L'importante è clampare prima che il cordone abbia smesso di pulsare, perché dopo rimane ben poco da prendere”.
Perché il trapianto di staminali da cordone abbia maggiori probabilità di successo, è necessario che la sacca di sangue contenga un numero elevato di cellule. Ce ne vogliono almeno un miliardo e mezzo perché la donazione venga accettata dalla banca. Negli ultimi anni sono stati pubblicati tre studi per valutare l'impatto del clampaggio differito sulla quantità di cellule che è possibile prelevare: uno svedese, uno canadese e uno statunitense. Tutti e tre confermano che più si aspetta e minore è la probabilità di raccogliere un numero di staminali sufficiente (vedi grafico). Attualmente in Italia la percentuale di unità di sangue prelevato che soddisfano i requisiti e vengono accettate dalle banche è dell'8,4%.

“L'importante è che i genitori siano informati di tutti gli aspetti della questione: per raccogliere la maggior quantità di staminali bisognerebbe clampare subito, ma questa pratica nuoce al neonato e infatti è esclusa dalle linee guida dello stesso Centro Nazionale Sangue”, conclude Enrico Ferrazzi. “Aspettando un minuto prima di clampare, il bambino riceve buona parte del sangue contenuto nei vasi della placenta e del cordone, ma non tutto quello che riceverebbe aspettando tre minuti. Donare clampando a un minuto è possibile, ma la probabilità che la donazione vada a buon fine è bassa. Aspettando tre minuti prima di clampare, non rimane nulla da donare



lunedì 2 gennaio 2017

Tre ottimi motivi per buttare al secchio l'omeopatia

Il più tenace luogo comune infondato sull'omeopatia recita: "non sappiamo come funzioni, ma funziona". Non solo l'omeopatia non può funzionare, perché in contrasto con tutti i principi fondamentali della chimica e della fisica, ma in effetti non funziona, come risulta da un secolo e mezzo di prove a sfavore.

da "Acqua fresca?" a cura di Silvio Garattini (2015, Sironi editore)

Due carissimi amici, sulla cui preparazione scientifica non nutro alcun dubbio, si sono fatti convincere dal pediatra ad acquistare un prodotto omeopatico e somministrarlo al loro bambino. Ho chiesto il perché. Risposta: “boh. Sappiamo che non serve a nulla, ma male non fa”.
Ho avuto l'impressione che non volessero dire di no al pediatra. “Per il resto è un bravo medico. Se c'è qualche problema serio non prescrive certo rimedi omeopatici”.

L'episodio mi ha fatto riflettere su quanto sia subdola e pervasiva la propaganda dell'omeopatia.
Il suo preteso meccanismo d'azione non ha alcun senso, ma questo poco importa a chi ci crede, che nella maggior parte dei casi non si è mai chiesto come funziona, ma si fida per sentito dire. “Se in tanti la usano, a qualcosa servirà”. Così confluiscono nel numero e convincono altre persone: è un serpente che si morde la coda.

I farmacisti, non sorprendentemente, la promuovono. Lo stesso fanno alcuni medici, perché va di moda e i pazienti escono soddisfatti con la loro prescrizione (tanto male non fa), oppure in buona fede, per sfruttare l'effetto placebo. Magari ce n'è anche qualcuno che ci crede davvero, in barba ai lunghi anni di studio e al metodo scientifico che dovrebbe guidarli.


Di recente ho letto il saggio “Acqua fresca? Tutto quello che bisogna sapere sull'omeopatia”, scritto a più mani e coordinato dal farmacologo Silvio Garattini (2015, Sironi editore) e il manualetto Guida illustrata all'omeopatia, scaricabile dal blog di Medbunker, al secolo Salvo Di Grazia. Li ho trovati, ciascuno a modo suo, chiari e circostanziati e mi hanno ispirato a mettere nero su bianco tre ottime ragioni per buttare al secchio l'omeopatia.

Intendiamoci, non dico che l'omeopatia è una balla perché così sostengono Garattini e Di Grazia. Non è così che funziona la scienza. L'omeopatia è una balla perché le sue basi teoriche fanno acqua e perché alla prova dei fatti gli studi clinici dimostrano che la sua efficacia non è superiore a quella di un placebo.


Uno: le basi dell'omeopatia non hanno alcun senso

Tu che vai in farmacia e compri i granuli omeopatici da sciogliere sotto la lingua per proteggerti dall'influenza, lo sai che cosa contengono quei granuli? Lo sai in che modo li fanno e perché?

Per curare una malattia che provoca determinati sintomi, devi somministrare al paziente una sostanza che provochi gli stessi sintomi. Il buon vecchio “chiodo scaccia chiodo”. È questa la legge dei simili, il principio su cui si basa l'omeopatia. La escogitò agli inizi dell'ottocento un medico tedesco di nome Samuel Hahnemann. Cominciò a sperimentarla su se stesso, su amici e pazienti, ma i rimedi scelti in questo modo… aggravavano i sintomi delle malattie. Allora introdusse una nuova legge per integrare la prima: diluendo il preparato così tanto da eliminare ogni traccia della sostanza originale, l'effetto indesiderato viene meno (e fin qui è ovvio), ma per qualche ragione misteriosa rimane intatto il potere curativo del rimedio (potere curativo ipotizzato, ma non dimostrato). Anzi, più il preparato viene diluito e più il suo potere curativo si amplifica.

Poniamo che tu abbia una gastrite. Avverti dolori brucianti allo stomaco. Lo stesso tipo di dolori brucianti che proveresti, per esempio, se ingerissi del triossido di arsenico, un potente veleno. Per liberarti della tua gastrite, la farmacopea omeopatica prevede la somministrazione di triossido di arsenico, chiamato dagli adepti “arsenicum album”. Ma così facendo staresti peggio, potresti anche morire avvelenato. La soluzione è diluire: una goccia di arsenico e 99 gocce di alcool, poi una goccia del miscuglio così ottenuto e 99 gocce di alcool e così via per cinque volte. Il preparato finale non contiene più triossido di arsenico, non ti avvelena, non provoca bruciori. Secondo gli omeopati, cura la tua gastrite. Le diluizioni si fanno con alcool, con acqua o con lattosio o saccarosio. Ed è così che vengono prodotte le gocce e i granuli da sciogliere sotto la lingua.
Contengono solo ed esclusivamente acqua, o alcool, o lattosio, o saccarosio. Quale effetto possono produrre, se non c'è più neppure una traccia del principio attivo? E meno male che non ne contengono più, altrimenti il loro effetto sarebbe quello di acuire i sintomi della malattia.


Dimenticavo: tra una diluizione e l'altra il preparato deve essere scosso, si dice “dinamizzato”, così il principio attivo trasferisce i suoi poteri curativi all'alcool, all'acqua, al lattosio, al saccarosio. Sembra una magia, eh? Infatti scienza non è: la fisica, la chimica e la biologia non funzionano così. Neppure la meccanica quantistica, spesso chiamata in causa da chi vuole a tutti i costi giustificare l'omeopatia. Non c'entra proprio un bel niente, la meccanica quantistica.


Due: l'omeopatia non funziona

Ma cosa c'importa se la scienza non ha ancora trovato una spiegazione che giustifichi il funzionamento dell'omeopatia? Prima o poi salterà fuori qualcosa di nuovo, qualcosa di grosso, che rivoluzionerà fisica e chimica e tutto sarà evidente. L'importante è che i rimedi omeopatici funzionino. Perché funzionano, no?

La risposta è no. “La cugina del cognato della mia vicina ne ha tratto giovamento” non è una prova della loro efficacia. Neppure “io ne ho tratto giovamento” dimostra alcunché. Se ho il raffreddore e assumo un rimedio omeopatico, probabilmente nei giorni successivi avrò un miglioramento e in breve guarirò del tutto, perché il raffreddore guarisce da sé in pochi giorni. Se al tuo bimbo stanno spuntando i dentini e gli somministri le goccine omeopatiche, dopo un po' smetterà di piangere, perché il dolore della dentizione non è uniforme, in certi momenti si attenua spontaneamente e poi prevale il sonno.


Per dimostrare che un farmaco è efficace contro una determinata malattia bisogna sperimentarlo su un gran numero di persone, in condizioni controllate, confrontando la sua azione con quella di un placebo o con quella di un altro farmaco, se si vuole valutare quale dei due sia più efficace. E bisogna che i pazienti e gli sperimentatori non sappiano a chi è stato somministrato il farmaco 1 e a chi è stato somministrato il placebo o il farmaco 2. Sono studi a cui vengono sottoposti tutti i medicinali prima di entrare in commercio, altrimenti non entrano in commercio. I prodotti omeopatici no. Per essere venduti in farmacia devono essere sottoposti a una procedura semplificata, che ne accerta la sicurezza, non l'efficacia. Devono dimostrare di essere innocui. Non è prevista alcuna prova di efficacia.


“Ma ormai da decenni numerosi studi indipendenti hanno dimostrato che l'omeopatia funziona”. Lo leggo e lo sento dire spessissimo. Beh, è falso. Per decenni sono stati condotti numerosi studi sull'efficacia dell'omeopatia e il risultato è che la sua efficacia non è superiore a quella del placebo.


Nel 2005 la rivista The Lancet ha pubblicato una metanalisi, cioè uno studio di studi, che ha confrontato 110 ricerche sull'efficacia di rimedi omeopatici con altrettante ricerche sull'efficacia di farmaci convenzionali. La conclusione è la “conferma dell’ipotesi che gli effetti clinici dell’omeopatia, ma non quelli della medicina convenzionale, sono generici effetti placebo o di contesto”.


Nel 2015, in Australia, il National Health and Medical Research Council ha condotto una revisione degli studi pubblicati in tutto il mondo sull'efficacia dei rimedi omeopatici impiegati per il trattamento di 70 diverse patologie. Il lavoro, ampio e approfondito, è stato aperto al contributo di esperti di diverse discipline, compresi i sostenitori dell'omeopatia. Risultato: “non ci sono malattie o condizioni cliniche per cui risulti una evidenza affidabile che l’omeopatia sia efficace. Le persone che la scelgono possono mettere a rischio la propria salute se rifiutano o ritardano trattamenti per cui c’è una buona evidenza di sicurezza ed efficacia”.


Tre: l'omeopatia allontana dalle terapie veramente efficaci

Se i rimedi omeopatici non contengono alcun principio attivo, sicuramente non fanno male, non hanno effetti indesiderati come i farmaci convenzionali, non intossicano l'organismo. Ecco perché tanti chiamano l'omeopatia “medicina dolce”. Ma non lo è, perché non è medicina. L'assunzione di qualunque farmaco comporta dei rischi e dei benefici. È appropriata quando il rapporto tra rischi e benefici è vantaggioso per il paziente. Nel caso dell'omeopatia, gli effetti indesiderati sono del tutto assenti, ma anche i benefici lo sono.

Se una persona ammalata ricorre a un rimedio omeopatico per curarsi, anziché a un farmaco convenzionale di provata efficacia, non guarisce. Le sue condizioni possono aggravarsi e, a seconda della serietà del problema, può anche rischiare la vita.

La rete è piena di siti-bufala che scoraggiano gli ammalati di cancro dal ricorso alla chemioterapia, indicando piuttosto l'approccio dolce dell'omeopatia, che equivale a raccomandare di non curarsi. Stesso dicasi per i movimenti anti-vaccinisti, che consigliano ai genitori di rafforzare le difese immunitarie dei figli con le goccine o i granuli omeopatici piuttosto che far ricorso ai vaccini.
Probabilmente è vero che sono rari i casi di ammalati sviati da una terapia efficace a causa dell'omeopatia, fino a subirne le più gravi conseguenze. Me lo fa notare un medico di famiglia con 40 anni di esperienza. Un professionista che agisce in scienza e coscienza, osserva, non priverebbe mai un paziente di un trattamento di efficacia nota in cambio di un rimedio omeopatico. Di solito l'omeopatia è riservata a disturbi lievi che si risolvono spontaneamente, oppure come complemento delle terapie convenzionali. Lui stesso, mi spiega, talvolta consiglia rimedi omeopatici per sfruttarne l'effetto placebo e alleviare il fastidio di un paziente.


Capisco la sua posizione e quella dei suoi colleghi che fanno analoghe considerazioni, ma credo che anche in queste circostanze sia dannoso consigliare rimedi omeopatici. Un medico coscienzioso sa quando è il caso di prescrivere farmaci realmente efficaci e quando e come sfruttare l'effetto placebo. Ma oltre a curare la salute dei suoi assistiti, il medico ha anche il ruolo di trasmettere loro informazioni attendibili sulla salute, sulle malattie e su come prevenirle e curarle. Il paziente che va allo studio del dottore con un disturbo e ne esce con la prescrizione di un prodotto omeopatico, impara che l'omeopatia funziona. La volta successiva, che cosa gli impedirà di andare in farmacia e acquistare un prodotto omeopatico, sicuro della sua efficacia, senza essersi prima rivolto al medico?


L'effetto placebo è una risorsa che andrebbe senza dubbio studiata e sfruttata meglio, ma ci sono altri modi per farlo. Le persone che scelgono di farsi assistere da un medico omeopata ne apprezzano molto la capacità di comunicazione e di ascolto, il tempo che dedica alla visita e al colloquio con i pazienti. Sono fattori che rafforzano l'efficacia delle terapie in virtù dell'effetto placebo e su cui potrebbero lavorare anche i medici non omeopati.