giovedì 10 dicembre 2015

Vuoi partorire così?


Guardate questo geniale video prodotto da Freedom for Birth - Rome Action Group, Si intitola "La Prestazione" e fa capire meglio di tante parole che cosa vuol dire parto medicalizzato. 
Nel nostro Paese, troppo spesso un evento fisiologico come la nascita di un bambino viene disturbato da interventi medici innecessari, una pratica irrispettosa della dignità, del benessere e dell'autodeterminazione della donna, che va a detrimento della sicurezza e della salute della madre e del bambino.

E tu, vuoi partorire così?
Unisciti alla petizione per sollecitare al Ministero della Salute la stesura di linee guida sull'assistenza al parto fisiologico. Perché sia chiaro, nero su bianco, quali interventi medici sono indicati in quali circostanze e quali sono invece innecessari o controproducenti.



mercoledì 23 settembre 2015

#partorispettoso

Il Sistema Nazionale Linee Guida del Ministero della Salute ha pubblicato nel corso degli anni due testi che contengono raccomandazioni per l'appropriatezza degli interventi medici nell'assistenza alla gravidanza fisiologica e per l'indicazione al parto cesareo. Manca all'appello un documento sull'appropriatezza degli interventi medici nell'assistenza al parto vaginale, documento fondamentale per combattere efficacemente l'eccessiva medicalizzazione del parto nel nostro Paese.
Che sia necessario, ne è ben consapevole chi si occupa di salute materno infantile al Ministero e all'Istituto Superiore di Sanità. Al momento, però, il Sistema Nazionale Linee Guida è in corso di riorganizzazione ed è fermo.
Mammifera Digitale ha lanciato con Change.org una petizione per chiedere in tempi brevi l'elaborazione delle raccomandazioni e la stesura di una versione divulgativa del documento, per contribuire all'informazione e alla consapevolezza delle donne e delle future mamme.

Se siete d'accordo, leggete, firmate e condividete!

Petizione #partorispettoso

QUI IL LINK ALLA PETIZIONE SU CHANGE.ORG

giovedì 6 agosto 2015

Il parto in Italia: c'è troppa medicalizzazione

Come è stato il tuo parto? Sei soddisfatta dell'esperienza vissuta? Provate a formulare queste domande su un forum frequentato da neomamme e farete un buon raccolto di “storie dell'orrore”: racconti di travagli affrettati con l'ossitocina per liberare un posto in sala, snervanti monitoraggi in continuo, poca intimità e via vai continuo di operatori, episiotomie praticate di routine.
Gli aneddoti, si sa, non fanno statistica. Che dire, dunque? Sono pochi casi eccezionali che risaltano per la loro negatività, oppure effettivamente l'eccesso di medicalizzazione del parto fisiologico è diffuso nel nostro Paese?

di Tom Adriaenssen via Wikimedia Commons
L'Italia è uno dei Paesi al mondo dove i bimbi nascono in condizioni di maggior sicurezza: la mortalità materna e perinatale è bassissima, abbiamo un sistema sanitario universalistico che assicura a tutte le donne l'assistenza pubblica necessaria”, osserva Serena Donati, ricercatrice del Reparto salute della donna e dell'età evolutiva dell'Istituto Superiore di Sanità. “Fatta questa doverosa premessa, va detto che effettivamente nel nostro Paese c'è un problema di eccessiva medicalizzazione dell'evento nascita. Lo dimostra in primis la percentuale dei tagli cesarei, che sono di gran lunga troppi rispetto a quanto raccomandato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Anche nell'espletamento del parto vaginale, c'è un ricorso eccessivo, e dunque inappropriato, a pratiche mediche come l'induzione del travaglio o l'episiotomia. Il Ministero della Salute tiene il polso della situazione analizzando le schede di dimissione ospedaliera e i certificati di assistenza al parto e l'Istituto Superiore di Sanità conduce indagini campionarie periodiche sull'intero percorso nascita. L'ultima pubblicata risale al 2011-2012”.
È il Rapporto “Percorso nascita:promozione e valutazione della qualità di modelli operativi”, che riporta i dati relativi ad alcuni indicatori di appropriatezza. Ne risulta che il 19,4% delle donne coinvolte nell'indagine che ha partorito per via vaginale ha avuto il travaglio indotto, quasi il doppio del 10% che l'Organizzazione Mondiale della Sanità indica come percentuale ottimale. L'episiotomia è stata praticata nel 43,6% dei parti vaginali. Si fa quasi di routine, mentre l'OMS raccomanda di limitarla ai pochi casi di reale necessità. Mancano informazioni sulla frequenza di altre pratiche a rischio di inappropriatezza, come il monitoraggio continuo durante il travaglio, la somministrazione di ossitocina o la manovra di Kristeller, inutile e pericolosa secondo la letteratura scientifica.

di Kopfjäger via Wikimedia Commons

Soddisfatte?

Il rapporto contiene anche i risultati di un'indagine sulla soddisfazione delle neomamme riguardo l'esperienza del parto. Risultato: il 47,7% delle madri italiane intervistate la considera ottima, il 34,7 la considera buona, il 12,7 soddisfacente, il 3,3 insoddisfacente e l'1,6% pessima.
“È significativo il fatto che meno del 50% delle interpellate abbia giudicato ottima l'esperienza vissuta”, commenta Michele Grandolfo, ex direttore dello stesso Reparto dell'Istituto Superiore di Sanità, uno degli autori del rapporto. “Va detto, inoltre, che una donna a cui viene posta una domanda di questo tipo tende spesso a dichiarare un livello di soddisfazione superiore a quello realmente percepito”.
Perché? “A causa delle aspettative indotte dalla nostra cultura”, risponde Gabriella Pacini, ostetrica di Freedom for Birth Rome Action Group. “La maggior parte delle future mamme è portata ad aspettarsi un parto difficile e doloroso. Così chi ha subito una procedura inutile e inappropriata è convinta che fosse necessaria per il bene proprio e del bambino e non se ne lamenta. Non è socialmente ben accetto lamentarsi e rammaricarsi per un evento che ha portato alla nascita di un bambino sano, quindi la donna col suo piccolo in braccio rimuove quanto di sgradevole ha vissuto”. Ci vorrebbe, dunque, una maggiore consapevolezza da parte delle partorienti sulla fisiologia del parto, sulle circostanze in cui questa o quella procedura medica è realmente indicata e sul diritto al consenso informato e al rispetto delle esigenze e delle preferenze personali. “Le procedure mediche inappropriate, oltre alle conseguenze negative per la salute che possono comportare, producono un danno psicologico”, prosegue Grandolfo. “Inducono un senso di incompetenza, sfiducia nelle proprie capacità, atteggiamenti di delega”.

di Ernest F via Wikimedia Commons


Linee guida

Induzione del travaglio, rottura artificiale delle membrane, rasatura del pube, clistere, posizione litotomica, divieto di bere acqua e idratazione per endovena, somministrazione di ossitocina, monitoraggio continuo, episiotomia, manovra di Kristeller sono alcune delle pratiche a maggior rischio di inappropriatezza elencate nel manuale sull'assistenza al parto fisiologico dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e nelle linee guida sullo stesso argomento del National Institute for Health and Care Excellence britannico.
Nel nostro Paese, al momento, il Sistema Nazionale Linee Guida ha elaborato raccomandazioni relative all'assistenza della gravidanza fisiologica e ai criteri per l'indicazione del parto cesareo, ma non ha pubblicato alcun documento relativo all'assistenza del parto fisiologico.
“Il SNLG è in una fase di ridefinizione e non riceve finanziamenti da due anni”, dice Serena Donati. “La sua attività di fatto è bloccata, tanto che non siamo riusciti neppure a pubblicare l'aggiornamento delle linee guida sulla gravidanza fisiologica previsto per il 2014. La gestione del parto fisiologico è uno degli ambiti in cui sarebbe utile elaborare raccomandazioni per la pratica clinica”.
A Paolo Scollo, presidente della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia, non piace il concetto di linee guida per l'assistenza al parto. “Il medico non è un esecutore di linee guida”, dice. “È un professionista che mette a frutto tutti i giorni la sua competenza e la sua esperienza, valutando caso per caso quello che è opportuno fare. Anche le pratiche a rischio di inappropriatezza elencate dall'OMS e dal NICE in alcuni casi sono necessarie. Spetta al ginecologo decidere quando”.
È un dato di fatto, però, che in Italia il parto fisiologico è eccessivamente medicalizzato. C'è qualche controllo da parte della SIGO sull'appropriatezza di intervento dei propri associati? “La SIGO non ha finalità di controllo”, risponde Scollo. “Spetta al singolo medico agire in scienza e coscienza e se commette un abuso ne risponde personalmente. L'eccesso di medicalizzazione c'è, ne siamo consapevoli, ed è spesso legato al fenomeno della medicina difensiva. I ginecologi sono i più tartassati dalle denunce da parte delle pazienti e di solito un medico viene denunciato perché si ritiene che abbia fatto troppo poco, non troppo. Dunque i ginecologi per cautelarsi tendono a fare di più”.
Serena Donati non nega l'impatto del timore delle denunce sul lavoro dei ginecologi. “Ma la risposta giusta non è l'interventismo eccessivo e inappropriato”, dice. “Altrimenti il cane si morde la coda. L'unica strada per risolvere il problema è porre attenzione all'appropriatezza degli interventi recuperando il rapporto di fiducia tra medico e paziente”.
In questo senso anche l'elaborazione di linee guida rappresenta un intervento utile. “Sono strumenti importanti per informare i professionisti sanitari e i cittadini sulle pratiche più appropriate in specifiche situazioni cliniche, tuttavia le evidenze scientifiche non prendono decisioni! Possono solo guidare le scelte assistenziali che spettano comunque ai clinici”, dice Donati. “Le linee guida sono uno strumento per facilitare l'aggiornamento dei professionisti e per aggiornare e condividere i protocolli assistenziali nei diversi presidi sanitari. Rappresentano un aiuto sulla strada per demedicalizzare l'evento nascita”.

Che cosa possiamo fare?

Qualunque cittadino può sollecitare il Ministero della Salute perché promuova l'elaborazione di linee guida su uno specifico argomento”, osserva Michele Grandolfo. “La richiesta ha più peso se viene da una società scientifica, da un'associazione. Io credo che le mamme e le future mamme che si aggregano in rete per comunicare e confrontare le loro esperienze dovrebbero organizzarsi e formulare una richiesta in tal senso. Hanno abbastanza peso per riuscire nell'intento e l'iniziativa sarebbe un'ottima occasione per guadagnare consapevolezza sulla gestione della propria salute”.

domenica 2 agosto 2015

Il neonato sano: istruzioni per l'uso? (Seconda Parte)

Nelle prime ore di vita è meglio allontanare dalla madre il bambino, benché sano e nato a termine, e affidarlo alle cure del personale sanitario, per tenere sotto controllo le sue condizioni di salute e prevenire eventi avversi, improbabili ma sempre possibili.
Nella prima parte di questo post ho riportato le critiche mosse da medici, ostetriche e consulenti per l'allattamento a questa controversa affermazione, contenuta in un documento pubblicato dalla Società Italiana di Neonatologia.
Non è questo l'unico punto critico del testo della SIN.

di Petr Kratochvil via Wikimedia Commons


Il calo fisiologico e l'aggiunta

Per esempio, si legge nel documento che “il calo di peso nei primi giorni di vita fino al 10% del peso di nascita è assolutamente fisiologico e non deve destare preoccupazione”.
Poco più avanti viene detto, però: “Se il calo è tra il 7% e il 10% si integra l’allattamento al seno con latte artificiale (aggiunta di latte dopo la poppata al seno) in modo da garantire al neonato l’apporto adeguato, si controlla la diuresi (semplice osservazione) e si danno indicazioni ai genitori sull’alimentazione al seno. Se il calo di peso è maggiore del 10% si controlla la diuresi con il peso del pannolino, si eseguono esami ematochimici (natremia e creatininemia) e si suggerisce un’integrazione alimentare con latte artificiale dopo la poppata al seno”.
Dunque il calo è fisiologico entro il 10%, ma già al 7% è opportuno intervenire con l'aggiunta di latte artificiale? “In terza giornata dopo il parto, il calo può raggiungere il 10%”, spiega Elisabetta D'Amore, coordinatrice ostetrica di sala parto dell'Ospedale Fatebenefratelli dell'Isola Tiberina di Roma. “Se la soglia viene superata, bisogna comprenderne le ragioni: forse c'è qualcosa che non va nelle modalità di attacco al seno, forse le poppate non sono abbastanza frequenti. Solo se i tentativi di risolvere il problema non danno risultati soddisfacenti e il bambino continua a calare di peso o non lo recupera, si prescrive l'aggiunta, che non deve essere demonizzata, ma che va prescritta quando ce n'è effettiva necessità”.
Ho chiesto a Costantino Romagnoli, presidente della SIN, di chiarire il senso dell'integrazione di latte artificiale se il calo neonatale è al 7%, dunque ancora entro i limiti della fisiologia. “È ben noto che un calo fisiologico superiore al 10% vuol dire che il neonato non ha ricevuto liquidi a sufficienza”, risponde il neonatologo. “Questo comporta spesso una contrazione della diuresi (emissione di urine) e un aumento della concentrazione di sodio e di elettroliti nel sangue che può essere molto dannosa (convulsioni ipernatriemiche). Chi, come me, lavora in in un grande ospedale vede molti neonati che vengono ricoverati con questo problema (la disidratazione, non le convulsioni) perché non è stato valutato bene l’apporto alimentare o perché l’allattamento stenta a decollare. Allora da sempre un calo giornaliero superiore al 5% viene da noi considerato a rischio e necessita di un controllo alimentare (verificare quanto latte prende il bambino, controllare la diuresi e il peso) ed integrare con liquidi l’eventuale carenza. Il limite del 7% è il limite di allarme per evitare che il neonato superi il 10% del calo totale: vuol dire assistere meglio la madre nell’allattamento, controllare più da vicino il neonato in rooming-in ed eventualmente consigliare integrazioni se necessarie”.
Ancora una volta, dunque, il principio che anima queste indicazioni è considerare la fisiologia una condizione a rischio di sfociare nella patologia. “Può accadere che una donna abbia poco latte, che l'integrazione si riveli necessaria, ma non è assolutamente la norma. La disidratazione del neonato non è un evento frequente”, commenta Riccardo Davanzo, neonatologo dell'Ospedale Burlo Garofolo di Trieste. “Bisogna fare chiarezza e non agitare spauracchi”.
L'integrazione con latte in formula non può essere prescritta in via precauzionale, senza reale necessità, perché non è priva di effetti indesiderati. “È l'inizio di un circolo vizioso che pregiudica il buon avvio dell'allattamento”, commenta la Coalizione Italiana per l'Alimentazione dei Neonati e dei Bambini. Succede che il neonato, saziato dall'aggiunta, riduce la frequenza delle poppate al seno e le mammelle, senza la giusta stimolazione, riducono la produzione di latte. Un circolo vizioso, appunto.

di I Produnis via Wikimedia Commons


A richiesta, ma non troppo

Parlando ancora di allattamento, il documento della SIN afferma che “ogni poppata dovrebbe durare in tutto circa 20-30 minuti (non più di 10-15 minuti per seno) alternando il seno da cui si inizia”. Allattamento a richiesta, dunque, ma con l'orologio in mano.
“Ogni neonato ha i suoi tempi, che sono anche dettati dalla frequenza delle ondate di latte a disposizione e dalla calibrazione del seno”, risponde la CIANB, “in più, il neonato si stacca spontaneamente da una mammella quando ha assunto tutta la quantità di grassi che gli giova; dare tempi per una poppata e per ogni singola mammella va contro la fisiologia dell’allattamento”.
Interpellato su questo punto, Romagnoli risponde così alle critiche. “Chi ha qualche anno sulle spalle, ha vissuto in passato il tempo delle doppie pesate ed ha potuto verificare che tale pratica è poco utile e non la consiglia più, se si attuano gli altri controlli consigliati. Quella pratica però ci ha insegnato che nei primi 5-10 minuti ad ogni seno il neonato assume il 95% del latte che assumerà in totale qualunque sia la durata della poppata”.
Va detto, però, che la composizione del latte materno non è omogenea nel corso della poppata. “Quello che il piccolo assume nei primi minuti di suzione è ricco di zuccheri e povero di grassi, acquoso”, spiega Elisabetta D'Amore. “Man mano che la mammella si svuota, il liquido si fa più denso e ricco di grassi, indispensabili per il nutrimento del neonato. I bimbi che d'abitudine vengono staccati pochi minuti dopo avere iniziato a mangiare, crescono più lentamente e tendono a cercare più spesso il seno”.
Riguardo alla frequenza delle poppate nelle prime settimane di vita, il testo della SIN dice che “è importante attaccare il neonato al seno appena possibile e frequentemente nei primi giorni di vita poiché la suzione dal capezzolo è l’unico stimolo veramente efficace per la produzione del latte”, ma poi aggiunge: “Il neonato si autoregola nell’appetito e piange quando ha fame. Questo è certamente vero quando il colostro iniziale si sarà trasformato in latte maturo (15-20 giorni dopo il parto), ma fino a quel momento cercare un ritmo sarà utile per il neonato e per il seno materno. Se si attacca il neonato al seno ogni 2-3 ore e si cerca di allungare il tempo tra una poppata e l’altra non c’è dubbio che si facilita l’assunzione di quantità di latte maggiori perché il seno ha più tempo per riempirsi. Nello stesso tempo un neonato che mangia quantità sempre maggiori tende ad assumere un ritmo di poppate inferiori lasciando alla madre il tempo di recuperare (forze e sonno)”.
Dunque la suzione frequente stimola la produzione di latte, ma è meglio allungare la distanza tra le poppate per consentire al seno di riempirsi. I conti non tornano.
“Se è vero che in fase di avvio dell’allattamento la stimolazione più frequente è utile a stimolare la produzione di latte”, commenta Costantino Romagnoli, “una volta avviato l’allattamento il neonato tende ad assumere più latte ad ogni poppata e questo dilata progressivamente il suo stomaco che all’inizio è una cavità virtuale. Ora, se il neonato viene allattato ogni ora, prende poco latte (quello che si può essere prodotto in un’ora) e mangerà 15-20 volte al giorno. Questo porta la madre ad un affaticamento che va ad interferire fisicamente e psicologicamente sull’allattamento futuro. Si pensi che, oggi, il sentirsi non adeguata all’allattamento è la causa principale della depressione post-partum”.
Ma se il bambino non succhia frequentemente, il seno non si riempie. “È un meccanismo naturale che si è sviluppato nei mammiferi per rallentare o bloccare la produzione del latte se la richiesta da parte del piccolo diminuisce o viene a mancare”, spiega Elisabetta D'Amore. “Distanziare forzatamente le poppate comporta una riduzione della produzione di latte. Il bambino regola la produzione del latte materno aumentando o diminuendo la frequenza delle richieste a seconda della quantità di alimento di cui ha bisogno”.
Infine, si legge nel testo della SIN: “Bisogna rassicurare le mamme che se si somministra qualche liquido (acqua, camomilla, tisana) al neonato questo si attaccherà comunque al seno”.
A che pro somministrare al neonato acqua, camomilla o tisana, se ricava i liquidi e il nutrimento di cui ha bisogno dal latte materno? “Se un neonato piange ininterrottamente, nonostante la madre lo tenga al seno in continuo (e non è evento poco frequente soprattutto nei primi giorni dopo il parto per primipare, tagli cesarei, madri con capezzoli introflessi, neonati di basso peso e late preterm) cosa si proporrà di fare se non di dare qualche liquido? O sarebbe meglio il latte artificiale?”, risponde Romagnoli.
“Il neonato che mangia regolarmente, che bagna 5-6 pannolini al giorno e che cresce secondo fisiologia non ha bisogno di acqua, camomilla, tisane o di latte in formula”, dice Elisabetta D'Amore. “Il fatto che pianga frequentemente non vuol dire che abbia fame o sete. Il pianto è un sintomo aspecifico: può dipendere da mille motivi. Bisogna piuttosto cercare di capire perché il piccolo si comporta così. La somministrazione di liquidi in aggiunta al latte materno nei primi giorni di vita, a meno che non sia necessaria per ragioni mediche, mette a rischio il buon avvio dell'allattamento, perché può instaurare nel bambino una falsa percezione di sazietà e spingerlo a succhiare meno latte”.

Nella prima e nella seconda parte di questo post ho evidenziato alcuni dei punti più controversi del documento pubblicato dalla SIN. “Sono certo che queste mie considerazioni accresceranno le critiche più che rispondere ad esse”, ha commentato Romagnoli al termine dell'intervista. “Ma la pratica clinica non è fatta di sentenze e di teorie. La salute della madre e del bambino la si protegge agendo in sicurezza ed evitando rischi inutili”.
L'approccio che il presidente della SIN propone per agire in sicurezza e prevenire rischi inutili non è condiviso da tutti i suoi colleghi. “Il documento del presidente è oggetto di discussione sia all'esterno che all'interno della Società”, dice Davanzo. “La dialettica è accesa. Il dibattito proseguirà e vedremo a che cosa porterà”.



venerdì 31 luglio 2015

Il neonato sano: istruzioni per l'uso? (Prima Parte)

Di che cosa ha bisogno un bimbo sano, nato a termine con parto fisiologico? Del contatto pelle a pelle con la mamma e il rispetto dei suoi tempi, oppure di controlli attenti e procedure mediche per prevenire l'eventualità di un peggioramento delle condizioni di salute, improbabile ma sempre possibile? Di entrambe le cose, ovviamente. Sicurezza e benessere del piccolo sono entrambi obiettivi importanti. Tutto sta nel conciliarli al meglio nelle cure dei primi giorni di vita.
di Ernest F via Wikimedia Commons

La Società Italiana di Neonatologia ha pubblicato sul proprio sito e diffuso alla stampa un documento dal titolo “Genitori e i primi 30 giorni con il bebè”, che raccoglie “i consigli degli esperti su come affrontare nel modo giusto l'arrivo di un bambino”. Il succo del messaggio è: anche al bimbo apparentemente più sano potrebbe accadere improvvisamente qualcosa di brutto. È meglio che di lui si prenda cura il personale sanitario nel nido, piuttosto che la mamma, disattenta perché inesperta e stanca per il travaglio.
Settimana dopo settimana, il documento è rimbalzato sui social media suscitando vivaci polemiche, che sono montate sempre più.

Il nido è più sicuro

Dice il testo della SIN che appena nato, dopo essere stato rapidamente osservato, asciugato e avvolto in un telo, il piccolo viene appoggiato alla mamma. “Una volta in braccio, il bambino può essere attaccato al seno. Si tenga presente che nella prima mezz’ora di vita in genere il neonato è molto attivo, dopodiché segue una fase fisiologica di rilassamento dopo lo stress del parto, in cui è normale che si addormenti. Ecco perché i 20-30 minuti successivi alla nascita sono quelli ideali in cui cominciare ad allattarlo, per stimolare da subito la produzione del latte e favorire il legame mamma-bambino. (…) Nelle 2 ore successive al parto la donna resta in osservazione in una stanza attigua alla sala parto. E il neonato? È probabile che a questo punto si sia già addormentato, per questo è meglio che anche la mamma si rilassi e il bimbo sia portato nel nido, dove può riposare nelle condizioni ed alla temperatura ottimali e dove soprattutto le puericultrici ed il neonatologo possono effettuare periodicamente i controlli di battito e respiro”.
Al contatto pelle a pelle con la mamma e all'avvio dell'allattamento vanno riservati, dunque, i primi 20-30 minuti di vita, dopo di che è meglio che il neonato sia trasferito al nido e affidato alla cura di medici e puericultrici. 

Rispettare i tempi del bambino e della mamma

La Coalizione Italiana per l'Alimentazione dei Neonati e dei Bambini, che ha risposto alle dichiarazioni della SIN con una lettera , osserva su questo punto: “Il neonato, proprio perché attivo, esprime in questo momento al massimo i riflessi innati primitivi che, assieme alle sue competenze neuro-motorie, gli permettono di cercare e trovare, con tempi e modi soggettivamente variabili, la mammella della mamma e di attaccarsi spontaneamente al seno. Alcuni neonati ci riescono in 20-30 minuti, altri necessitano di un tempo superiore (fino a 2 ore), in media ci vogliono almeno 60 minuti o poco più. Questa fase e il contatto pelle a pelle non dovrebbero essere interrotti fino al completamento della prima poppata e, comunque, fino a quando la mamma lo desidera”.
Ho chiesto a Costantino Romagnoli, presidente della SIN, un commento sulle critiche espresse. “Cerchiamo di capire il senso di quanto detto”, risponde il neonatologo. “Innanzitutto la SIN da sempre sostiene l'importanza del contatto pelle a pelle e su questo è impegnata quotidianamente. È fisiologico che il neonato, dopo la nascita, abbia un periodo di circa 30 minuti di attività e poi dorme per circa 2 ore. La madre dopo il parto è nella maggior parte dei casi provata, specie le primipare e dopo un travaglio lungo. È bellissimo vedere il bimbo che dorme sulla madre dormiente o sonnecchiante. C’è solo un problema: come controllare che il bimbo stia bene. È ben noto che esista il neonatal collapse (la letteratura è piena di segnalazioni) e che molti centri (vedi Burlo Garofolo di Trieste) hanno instaurato un sistema di controllo nelle due-tre ore successive al parto con personale dedicato. Punti nascita con oltre 3000 nati all'anno non hanno dotazioni tecnologiche e di personale atte a tale tipo di controllo: allora cosa si fa? Ci si affida al caso o al destino? Non mi sembra la pratica migliore per la sicurezza del neonato”.

di Bonnie U Gruenberg via Wikimedia Commons


Il collasso neonatale

Il neonatal collapse a cui Romagnoli fa riferimento è un'evenienza rara (da 2,6 a 38 casi ogni 100.000 nati in Europa) che si verifica in prevalenza nelle prime 72 ore di vita, analoga alla SIDS, la morte in culla. Le cause sono ancora per lo più sconosciute, ma l'esito fatale può essere prevenuto tenendo sotto controllo i parametri vitali del neonato per intervenire tempestivamente in caso di alterazioni. Visto che il presidente della SIN ha chiamato in causa sull'argomento l'Ospedale Burlo Garofolo di Trieste, ho interpellato Riccardo Davanzo, neonatologo responsabile del servizio di rooming in e nido dell'ospedale triestino.
“Il collasso neonatale è un rischio reale, che non deve essere trascurato”, dice Davanzo, “ma non è giusto agitarlo come uno spauracchio per giustificare pratiche che non incoraggiano il contatto pelle a pelle tra la madre e il bambino e l'avvio precoce dell'allattamento. Il contatto con la mamma, precoce e prolungato, fa bene al neonato. Non è ideologia. Si sa, è dimostrato, i suoi benefici per la salute di entrambi sono dati di fatto ormai incontestabili. Per la sicurezza del bambino è necessario controllare periodicamente i suoi parametri vitali, ma per farlo non occorre tenerlo lontano dalla mamma. È sufficiente organizzarsi e seguire dei criteri adeguati. Non è una missione impossibile: da noi e altrove si fa così. Il documento del presidente della SIN descrive le pratiche messe in atto in alcuni ospedali italiani, non tutti, e di certo non descrive le modalità ideali di cure del neonato. Se l'organizzazione di alcune strutture impone dei limiti, questo non sia un alibi per far passare come ideale quel che ideale non è”.

Leggi qui la seconda parte dell'articolo. L'allattamento al seno, il calo fisiologico, le aggiunte di latte artificiale, orari e durata delle poppate secondo il documento della SIN. Le critiche della Coalizione Italiana per l'Alimentazione dei Neonati e dei Bambini, i commenti di Riccardo Davanzo e di Elisabetta D'Amore, coordinatrice ostetrica della sala parto dell'Ospedale Fatebenefratelli di Roma.

lunedì 16 marzo 2015

Il pupo mi mangia poco!


I, Ravedave via Wikimedia Commons


Ma come fa il mio bambino a consumare tanta energia se mangia così poco? È una domanda che si pongono tanti genitori davanti al pupo che avanza la pappa nel piatto e poi corre e salta instancabile tutto il giorno.
Ce lo chiediamo soprattutto noi genitori italiani, che per cultura dedichiamo più attenzione al cibo, ma se lo chiedono, evidentemente, anche i genitori britannici, se persino il settimanale New Scientist ha dedicato alla questione una puntata della rubrica The Last Word on Energy.
Poiché anch'io mi sono posta a lungo il problema di fronte agli ostinati rifiuti di mia figlia davanti al cucchiaino, ho cercato un esperto che mi rispondesse e ho girato la domanda a Francesco Chiarelli, direttore della Clinica Pediatrica dell'Università di Chieti e presidente della Società Europea di Endocrinologia Pediatrica.
"I bambini sono portati spontaneamente a nutrirsi secondo le proprie necessità: se hanno fame mangiano, quando sono sazi smettono di mangiare", osserva Chiarelli. "Crescendo subiscono le pressioni dei genitori ansiosi, delle pubblicità delle merendine in tv, dei coetanei, e la loro capacità di autoregolarsi viene sopraffatta. Ecco perché in Italia, come del resto in tutti i Paesi ricchi, tanti bimbi sono in sovrappeso o francamente obesi. I piccoli normopeso spiccano tra tanti paffutelli e sembrano sottopeso. Mamma e papà li vedono 'così magri', si preoccupano e insistono ancora di più perché finiscano la pappa nel piatto. Il cibo che il bimbo mangia spontaneamente, senza forzature, fino a sentirsi sazio è né più né meno quello che gli occorre per soddisfare il proprio fabbisogno di energia".
Ci sono bimbi che a parità di peso e di attività fisica consumano di più e bimbi che consumano di meno? "Certamente", risponde il pediatra. "Le tabelle dei nutrizionisti, che indicano porzioni ottimali in base all'età, fanno riferimento a dei valori medi. Per esempio, un bambino di otto anni ha bisogno di circa 1.800 calorie al giorno, ma ciò non vuol dire che tutti i bambini di otto anni dovrebbero consumare esattamente 1.800 calorie al giorno. C'è quello a cui ne bastano 1.600 e quello a cui ne servono 2.000".
Quindi se un bambino che mangia poco è in buone condizioni di salute e gioca e corre instancabile tutto il giorno, vuol dire che va bene così? La sua alimentazione è adeguata? "Ci sono casi in cui un bimbo mangia pochissimo ed è sottopeso perché è malato", dice Chiarelli. "Per esempio, è quello che accade ai piccoli che hanno una celiachia non diagnosticata, oppure una malattia infiammatoria cronica dell'intestino, ma sono bambini sofferenti, che hanno anche altri sintomi. E la loro condizione non sfugge alla visita di controllo del pediatra. Se il bimbo sta bene, non lamenta sintomi ed è carico di energia, non c'è nulla di cui preoccuparsi".

Questo post partecipa al blogstorming

Neonati d'inverno: 8 mosse per proteggerli

Andrew Vargas viaWikimedia Commons
È arrivato il freddo e, soprattutto è arrivata la stagione delle infezioni respiratorie. La Società Italiana di Neonatologia ci ricorda che i neonati sono particolarmente vulnerabili alle complicanze delle più banali infezioni. A poche settimane di vita, un raffreddore può aprire le porte a una bronchiolite e la gastroenterite può provocare disidratazione. Maggiore attenzione richiedono i più piccoli, nati prima del termine, che hanno difese immunitarie basse perché la mamma non ha fatto in tempo a trasmettere loro i suoi anticorpi attraverso la placenta.
Ecco otto mosse suggerite dagli specialisti della SIP per proteggere i bimbi dal rischio dei malanni di stagione e dai rigori invernali.

1. Allattarli al seno. Attraverso il latte, la mamma passa al bambino le immunolobuline IgA, che proteggono il suo intestino dai batteri patogeni, e la lattoferrina, che rafforza le difese immunitarie.

2. Vaccinarsi contro l'influenza. Il bambino non può essere vaccinato prima dei 6 mesi. Se i genitori e i nonni si vaccinano, formano uno scudo protettivo intorno a lui.

3. Evitare i luoghi chiusi affollati dove è probabile entrare in contatto con persone infette.

4. Lavarsi le mani con il sapone prima di toccare il bimbo.

5. Passeggiare all'aria aperta ed esporre al sole il bambino per favorire la produzione di vitamina D, che svolge un ruolo importante nel funzionamento del sistema immunitario.

6.  All'aperto, coprire adeguatamente il neonato. Né troppo, né troppo poco. Mettergli il cappellino quando fa freddo, perché i bimbi hanno la testa grande e spesso priva di capelli che disperde facilmente il calore.

7. In casa, moderare il riscaldamento per evitare sbalzi di temperatura rispetto all'esterno e perché una stanza surriscandata è un fattore di rischio per la sindrome della morte in culla.

8. Non imporre ai più piccoli il fumo passivo: infiamma le loro vie respitatorie e favorisce infezioni e allergie.

domenica 15 marzo 2015

5 consigli contro le allergie respiratorie

Foto di Carsten Ambelas Skjøth
Ci siamo, è tornata la stagione dei pollini, la più odiata da chi soffre di rinite allergica, asma e dermatite atopica, disturbi che complessivamente riguardano il 30% dei bambini e dei ragazzi italiani, per limitarci alla sola popolazione pediatrica. Le malattie allergiche, come tutti i disturbi legati a disfunzioni del sistema immunitario, sono in vertiginoso aumento. Gli esperti calcolano che entro il 2020 ne soffrirà un bambino su due.
Andando sul pratico, che cosa si può fare per curare o quanto meno mitigare le manifestazioni allergiche?

1. "Vaccinarsi", risponde Alessandro Fiocchi, responsabile di Allergologia dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. "Oggi i vaccini iposensibilizzanti sono efficaci e disponibili sia nella tradizionale somministrazione sottocutanea, che per via sublinguale".

2. Consultare il proprio allergologo per impostare un'adeguata terapia farmacologica, soprattutto nella stagione dei pollini, per chi è sensibile a questo tipo di allergene.

3. Per quanto è possibile, evitare l'esposizione allo specifico allergene. "Nel caso dei pollini, evitare la campagna e preferire le vacanze in alta montagna o al mare", dice Fiocchi. "Viaggiare in macchina a finestrini chiusi, aria condizionata accesa con i filtri ben puliti. In bicicletta, moto o motorino, indossare mascherine su bocca e naso, occhiali e cappelli con visiera. Al rientro a casa, cambiarsi d'abito, fare la doccia e un lavaggio nasale".

Fonte: U.S. Air Force
4. Evitare il fumo attivo e passivo. Il fumo è il primo inquinante negli ambienti chiusi e il 49% dei fumatori dichiara di accendere la sigaretta anche in presenza di bambini. I prodotti della combustione del tabacco infiammano le vie respiratorie, soprattutto quelle dei più piccoli, e favoriscono l'insorgere di reazioni allergiche.

5. Ridurre le fonti domestiche di biossido di azoto, un prodotto dei processi di combustione. In casa viene dalle caldaie e dai fornelli accesi. Una ricerca condotta dall'Istituto di Biomedicina e Immunologia Molecolare del CNR e pubblicata su Environmental Research ha correlato l'esposizione a concentrazioni elevate al biossido di azoto all'asma bronchiale.

giovedì 26 febbraio 2015

Pronto soccorso senza dolore per i bambini

Foto di Sterilgutassistentin via Wikimedia Commons
Ogni anno in Italia si registrano oltre 5 milioni di accessi pediatrici al pronto soccorso. Il 60% dei bimbi portati in ospedale ha dolore, ma nel 96% dei casi al piccolo non viene somministrato nulla per alleviarlo in attesa di essere visitato e trattato. E parliamo di un'attesa media di 50 minuti.
Il Gruppo PIPER (Pain in Pediatric Emergency Room), che raccoglie professionisti di 29 strutture di pronto soccorso italiane, ha pubblicato una lista di raccomandazioni destinate a medici e infermieri che accolgono e trattano i bambini al pronto soccorso.
"È essenziale valutare il dolore pediatrico già in fase di triage, anche perché la sua entità può far cambiare il codice di accesso al Pronto Soccorso e rendere prioritaria la visita medica", osserva Andrea Messeri, responsabile del Servizio terapia del dolore e cure palliative dell'Ospedale Meyer di Firenze, uno degli autori delle raccomandazioni. "Alla misurazione deve poi seguire un adeguato trattamento, farmacologico e non, in primis la somministrazione di paracetamolo. Alleviare il dolore già in questa fase permette di spezzare quel circolo vizioso per cui la sofferenza non trattata alimenta stress e ansia, che a loro volta accrescono il malessere del bambino. Un adeguato controllo antalgico in attesa della visita medica rende più semplice anche l'esecuzione della visita stessa e delle procedure a cui sarà sottoposto il piccolo paziente".


lunedì 16 febbraio 2015

Contraccezione online: occhio alle bufale!

contraccezione online

contraccezione online di mammiferadigitale contenente Pottery Barn

Il coito interrotto non è un metodo contraccettivo sicuro e la coca cola non è spermicida. Le bufale sulla contraccezione abbondano in rete. A fidarsi indiscriminatamente si rischia una gravidanza indesiderata.
Secondo una ricerca condotta da GfK nel nostro Paese, il 22% delle donne di età compresa tra 20 e 30 anni si affida al web come fonte di informazioni per scegliere il metodo contraccettivo.
Per questa ragione, la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia ha aperto il sito contraccezionesmart.sceglitu.it dove trovare informazioni attendibili sulle diverse modalità di contraccezione e scegliere liberamente, ma con cognizione di causa.

sabato 14 febbraio 2015

L'utero retroverso non è una malformazione

“Vorrei un bambino, ma ho l'utero retroverso. Riuscirò a concepire?”
È una delle domande che le aspiranti mamme postano più spesso nei forum dedicati alla fertilità. E non c'è da stupirsene, visto che avere l'utero retroverso o retroflesso è una condizione che riguarda il 20-30% delle donne. Condizione non nel senso di “condition”, cioè di malattia, ma nel senso di modo d'essere non patologico, di variante della normalità.
La maggior parte delle donne ha l'utero anteverso, cioè leggermente inclinato in avanti rispetto all'asse verticale, verso la vescica, oppure allineato al canale vaginale. Una percentuale minore lo ha inclinato all'indietro, verso la colonna vertebrale. In questi casi si parla di utero retroverso. Una variante ulteriore, ma quasi indistinguibile dalla retroversione, è la retroflessione, che consiste in una flessione dell'organo a formare un angolo maggiore di 90° rispetto all'asse della vagina.
La diagnosi, o meglio la constatazione di questa caratteristica anatomica, avviene di norma in occasione della prima visita ginecologica o ecografia pelvica transvaginale. Per una giovane donna che desidera in futuro avere figli, sentirsi dire “lei ha l'utero retroverso” può far paura, se il ginecologo non si premura di spiegare che questa condizione, se non è associata a endometriosi, aderenze o alla presenza di miomi, non ha conseguenze per la fertilità.
“Non interferisce con la capacità di concepire, con il corretto avvio e con l'avanzamento della gravidanza”, spiega Natalina Manci, ginecologa dell'Ospedale di Spoleto. "Non aumenta il rischio di interruzione spontanea di gravidanza o di presentazione podalica al momento del parto".
Che dire allora della messe di consigli che le aspiranti mamme preoccupate raccolgono in rete per correggere la posizione dell'utero: fisioterapia, esercizi di ginnastica mirati, posizioni da assumere durante o dopo l'atto sessuale per favorire la risalita degli spermatozoi? "Sono insensati", risponde la ginecologa.
Vero è che la retroversione può dare dei disturbi. "Può essere caratterizzata, in alcuni casi, da dolore pelvico esacerbato dalle mestruazioni o durante il rapporto sessuale, dovuto probabilmente a un eccessivo stiramento dei legamenti uterini posteriori o alla congestione dei vasi sanguigni, o ancora alla difficoltà del flusso mestruale di fuoriuscire a causa dell'angolazione eccessiva verso il retto", dice Manci. "In questi casi si fa maggior ricorso agli analgesici antinfiammatori come l'ibuprofene o il naproxene. L'opportunità di correggere chirurgicamente l'utero retroverso, benché possibile e un tempo praticato, è molto dibattuta e non è suffragata da evidenze. Si riserva a casi eccezionali, con tecnica mininvasiva laparoscopica".
Un'evenienza che può verificarsi nel primo trimestre di gravidanza in presenza di retroversoflessione è il blocco urinario. "L'utero, crescendo, rimane intrappolato nelle pelvi e spinge la vescica e l'uretra in avanti fino a bloccare la fuoriuscita dell'urina", spiega la ginecologa. "Per risolvere il problema è sufficiente una manipolazione pelvica che riposiziona correttamente l'utero, senza necessità di procedure invasive".

martedì 10 febbraio 2015

#buongiornoiosono...

L'esperienza della malattia, di una visita in ambulatorio o di un ricovero in ospedale sarebbero meno sgradevoli se il personale sanitario curasse un po' di più i rapporti umani con i pazienti, soprattutto quando si tratta di bambini. Basta poco: presentarsi, dire il proprio nome e il proprio ruolo.
Lo ricorda Slow Medicine con la sua campagna #buongiornoiosono...


#buongiornoiosono

giovedì 29 gennaio 2015

Allergie: guerra preventiva

Jaro P via Wikimedia Commons
Prevenire le allergie si può, o almeno ridurne sensibilmente il rischio. Nelle sue nuove linee guida appena pubblicate, l'Organizzazione Mondiale per le Allergie raccomanda alle future e alle neomamme di assumere probiotici durante gravidanza e allattamento e somministrarne ai loro bimbi nei primi mesi di vita. In questo modo, se il piccolo è ad alto rischio di malattia allergica per familiarità, la probabilità che ne soffra si riduce del 5-15%.

La malattia allergica in tutte le sue manifestazioni, eczema, asma, rinite, disturbi gastrointestinali, è un male comune soprattutto nei Paesi industrializzati e soprattutto tra i bambini. Chiediamo ad Alessandro Fiocchi, responsabile di Allergologia all'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, che ha coordinato la stesura delle nuove linee guida, che percentuale di bimbi italiani soffre di allergie oggi?

"Il 25%", risponde l'allergologo.

Di quanto è aumentata questa percentuale negli ultimi 20 anni nel nostro Paese?

"L'incremento è stato del 18%, dal 7% di 20 anni fa alle cifre attuali"

Quali sono le cause di una simile impennata?

"Il fatto che oggi le famiglie siano meno numerose. I figli unici corrono un rischio maggiore di sviluppare allergie perché hanno minori occasioni di contatto con altri bambini", dice Fiocchi. "L'aumentare delle gravidanze in età avanzata. La sterilità che accompagna oggi l'atto della nascita e l'estrema cura dell'igiene dei bambini".

Sono tutti cambiamenti ambientali che da un lato proteggono dal contatto con i microrganismi patogeni e dunque dalle infezioni, ma dall'altro influiscono negativamente sul sistema immunitario predisponendo allo sviluppo delle allergie. Gli studi clinici dimostrano che questa predisposizione può essere almeno in parte corretta mantenendo la varietà e l'equilibrio della flora intestinale, risultato che si ottiene assumendo probiotici, microrganismi viventi, contenuti in molti alimenti comuni, come lo yogurt e il latte fermentato, che modulano la risposta immunitaria.
La loro assunzione, secondo le linee guida, è raccomandata alle donne che aspettano un bimbo ad alto rischio di allergia, perché figlio o fratello di allergici, alle mamme che allattano un bimbo ad alto rischio e agli stessi neonati ad alto rischio, nei primi mesi di vita.
Ma i probiotici non sono tutti uguali. Quali scegliere?
 
"Le linee guida che stiamo pubblicando elencano alcuni specifici microrganismi la cui efficacia nella prevenzione delle allergie è dimostrata da prove più solide", spiega Fiocchi.

A chi devono rivolgersi, dunque, le future e neomamme per avere l'indicazione del prodotto giusto?

"In gravidanza al ginecologo, in seguito al pediatra", risponde.

"Devono, anzi, sollecitare il medico curante a informarsi sull'argomento per dare loro le necessarie indicazioni, visto che si tratta di una novità di cui non tutti sono a conoscenza", conclude Fiocchi

domenica 25 gennaio 2015

#gattiniperlascienza 9

Detergenti e cosmetici che contengono glutine, compresi dentifrici e rossetti, che entrano in contatto con la pelle o le mucose della bocca non costituiscono un pericolo per la salute di chi è affetto da celiachia.
L'eventuale minima quantità di rossetto o dentifricio ingerita accidentalmente non è sufficiente a provocare danni.
Maggiori informazioni sul sito dell'Associazione Italiana Celiachia.

venerdì 23 gennaio 2015

9 regole per la neve sicura

 SkiHoodoo via Wikimedia Commons

Pronti a partire per la settimana bianca?
Ecco 9 regole stilate dagli specialisti dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma per garantire un divertimento sano e sicuro ai bimbi sulla neve.

1- Sci ai piedi non prima dei 4 anni

2- Una visita di controllo dal pediatra prima della partenza per avere il suo ok, anche se non c'è obbligo di certificato medico per sciare, a meno di attività agonistica

3- Casco in testa quando si scia

4- Iscrivere il bambino a una scuola di sci. I maestri sono preparati per insegnare ai piccoli, meglio che siano loro a farlo, piuttosto che i genitori, per quanto siano bravi sciatori

5- Colazione ricca di zuccheri prima di andare in pista

6- Cinque minuti di riscaldamento e stretching prima di mettere gli sci ai piedi

7- Occhi protetti da occhiali da sole dotati di filtro anti UVA e UVB. Meglio acquistarli dell'ottico o in farmacia per essere certi della qualità

8- Usare una crema ad elevato indice di protezione solare anche se il cielo è nuvoloso, da applicare più volte al giorno, con particolare attenzione al contorno occhi, naso e labbra

9- I bimbi che soffrono di asma possono avere un peggioramento a causa dell'aria fredda, dello sforzo fisico e dell'altitudine. Consultare il pediatra per indicazioni specifiche.

martedì 13 gennaio 2015

Diventare mamma dopo un tumore


Marina aveva 28 anni, un lavoro, un compagno, una normale vita piena di impegni, quando le hanno diagnosticato il tumore al seno. “Improvvisamente tutto è sparito in un buco nero”, racconta. “Le mie priorità, i miei desideri... tutto ingoiato dalla malattia. Ho fatto esami, biopsie, l'intervento, la radio e la chemio”.
Da principio, non le è venuto in mente di chiedere se le terapie potevano compromettere la sua fertilità, se dopo avrebbe ancora potuto diventare mamma. “Il mio unico pensiero era salvare la pelle, arrivarci, al dopo”, dice Marina. “Non mi sono informata, non ho chiesto e nessuno mi ha detto nulla”.
Durante la chemio il ciclo si è interrotto e, a distanza di due anni dalla fine delle terapie, non è ancora ripartito. “Ora che mi sento più tranquilla, che la grande paura è passata, mi chiedo se tornerò fertile, se potrò cercare una gravidanza spontanea, se dovrò fare ricorso alla PMA”, si interroga.

Un problema di tante

Sono sempre più numerose le donne che affrontano la questione della maternità dopo un cancro, perché sono in aumento le diagnosi in età fertile di alcuni tipi di tumore, perché la ricerca della prima gravidanza si è spostata in avanti e perché migliorano progressivamente le prospettive di guarigione.
“Ogni anno 5.000 donne nel nostro Paese devono confrontarsi con un tumore quando potrebbero ancora diventare madri”, spiega Elisabetta Iannelli, segretaria della Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia.
Il cancro al seno e i linfomi rappresentano il 60% dei tumori diagnosticati sotto i 40 anni e nella maggior parte dei casi vengono trattati con chemioterapia potenzialmente tossica per la funzione ovarica. Ogni anno, dunque, sono circa 3.000 le donne a rischio di menopausa precoce a causa di una terapia antineoplastica. “Dai dati della letteratura si evince che la metà, circa 1.500, è interessata a preservare la propria fertilità”, dice Fedro Peccatori, direttore dell'Unità di Fertilità e Procreazione dell'Istituto Europeo di Oncologia.
La risposta del Servizio Sanitario Nazionale a questa esigenza per il momento è insufficiente. “Non sono stati definiti percorsi clinico assistenziali dedicati, l'informazione alle dirette interessate è carente e i farmaci necessari per preservare la fertilità sono interamente a carico delle pazienti”, osserva Iannelli.
Rhoda Baer via Wikimedia Commons

Le cause dell'infertilità

Tutti i trattamenti antitumorali possono compromettere la fertilità femminile, temporaneamente o definitivamente. Se la malattia coinvolge l'apparato genitale, l'intervento chirurgico di rimozione del tumore può comportare la perdita o la riduzione della capacità riproduttiva e l'irradiazione dell'addome può danneggiare l'utero o le ovaie.
Inoltre, in qualunque sede sia localizzato il tumore, la chemioterapia può indurre menopausa precoce. “Il rischio di sterilità dipende da diversi fattori: età della donna, lunghezza del trattamento e scelta dei farmaci”, spiega Fedro Peccatori. “Quelli a maggior rischio sono i regimi di chemio che contengono i farmaci della classe degli alchilanti, come la ciclofosfamide il melphalan e il busulfano. Anche altri farmaci sono potenzialmente tossici, ad esempio le antracicline e i taxani”.
Infine, l'ormonoterapia, utilizzata nel trattamento di alcuni tipi di tumore della mammella, quelli sensibili all'azione del progesterone o degli ormoni estrogeni, comporta anch'essa un rischio di infertilità, sebbene inferiore a quello della chemio.

Due possibili approcci

Due sono i possibili approcci per preservare la fertilità in vista di un trattamento chemioterapico. “La raccolta di ovociti e la loro crioconservazione per un successivo utilizzo, e la somministrazione di farmaci che proteggono le ovaie durante la terapia”, dice Peccatori. “Entrambe le tecniche possono essere applicate alla stessa paziente e il tasso di successo è relativamente elevato”.
Il congelamento degli ovociti offre il 30% di probabilità di diventare madre dopo la guarigione, ma non sempre è praticabile, perché la stimolazione ovarica e la raccolta di cellule richiedono non meno di dieci giorni e a volte non si può aspettare, non si può ritardare l'avvio del trattamento antitumorale. “Di solito si preferisce eseguire la stimolazione dopo avere rimosso chirurgicamente la neoplasia”, prosegue Peccatori. “Le più recenti evidenze confermano che non c'è un rischio aumentato di recidiva se la paziente si sottopone a stimolazione ovarica e crioconservazione ovocitaria anche in presenza di neoplasie ormonosensibili. In questo caso si usano regimi di stimolazione adattati”.
I farmaci che proteggono le ovaie durante la chemioterapia sono gli LHRH analoghi, che annullano la produzione di estrogeni, inibiscono l'attività ovarica e così facendo rendono i follicoli meno sensibili all'azione dannosa dei chemioterapici. “I dati della letteratura dimostrano una protezione che va dal 17 al 60% di riduzione del rischio di amenorrea”, puntualizza Peccatori.
Tom e Katrien via Wikimedia Commons

Le carenze del servizio sanitario

La difficoltà maggiore a cui vanno incontro oggi le donne che desiderano preservare la propria fertilità durante un trattamento antitumorale è il costo dei farmaci necessari, che è interamente a carico della paziente.
“Gli LHRH analoghi sono indicati per il trattamento del tumore mammario endocrinoresponsivo in premenopausa, della pubertà precoce, dei fibromi e dall'endometriosi”, spiega Peccatori. “Tra le indicazioni non figura la protezione delle ovaie durante la chemioterapia, dunque il farmaco non è rimborsabile per questo utilizzo e la richiesta di nuova indicazione da parte dell'industria è una pratica complicata e costosa. A fronte di un vantaggio economico non elevato, le aziende non hanno interesse ad ampliare l'indicazione”.
Lo stesso problema riguarda i farmaci utilizzati per stimolare la produzione di ovociti da crioconservare. “La loro prescrizione è gratuita per le coppie infertili, tuttavia formalmente le pazienti oncologiche non sono infertili nel momento in cui accedono alla crioconservazione, perché non hanno ancora iniziato i trattamenti gonadotossici”, spiega Elisabetta Iannelli della FAVO. “Non essendo formalmente infertili, non possono accedere alla prescrizione attraverso il Servizio Sanitario Nazionale, per questo devono pagare i farmaci”.
La FAVO e altre associazioni di pazienti e famigliari chiedono di applicare a questi medicinali la legge 648/96, che consente di erogare a carico del Servizio Sanitario Nazionale farmaci da impiegare per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, previo parere favorevole della Commissione consultiva Tecnico Scientifica dell’AIFA.
“Chiediamo inoltre di aggiungere ai fogli illustrativi dei farmaci antitumorali gonadotossici gli eventuali effetti nocivi sulla fertilità futura, in modo che i pazienti ne siano informati in
modo semplice e diretto e stimolati a chiedere maggiori chiarimenti ai medici di riferimento”, dice Iannelli.
Quello dell'informazione è un aspetto cruciale della questione. “Non sempre alle donne che ricevono una diagnosi di tumore in età fertile viene prospettata la possibilità di preservare la fertilità, non dappertutto”, osserva Peccatori. “Ci sono centri dove la sensibilità è maggiore e il tasso di informazione è maggiore di altri. Il problema esiste, e la soluzione non può essere lasciata solo alla buona volontà dei singoli. Se vogliamo dare significato alla centralità della paziente nel percorso di cura, non possiamo dimenticare l’importanza della prevenzione della infertilità dovuta ai trattamenti oncologici”.
L'appello delle associazioni di pazienti per la prevenzione dell'infertilità

sabato 3 gennaio 2015

#gattiniperlascienza 7

Il rischio che il nascituro sviluppi un difetto del tubo neurale, come la spina bifida, la labiopalatoschisi o l'anencefalia, può essere drasticamente abbattuto assumendo una dose quotidiana da 0,4 milligrammi di acido folico per un mese almeno prima del concepimento e per tutto il primo trimestre di gravidanza.